PALERMO – Nella giungla di Cosa Nostra vale al legge del più forte. Ci si salva se si ha un cognome che conta. Si muore se si è figli di nessuno. Come è accaduto a Mirko Sciacchitano. Per ammazzarlo, nel 2015, entrò in azione un commando. Oggi in sei sono stati condannati all’ergastolo. Aveva 29 anni. La sua morte doveva essere un esempio per tutti coloro che non sottostavano alle regole. Lo assassinarono come se fosse un boss perdente, ed invece sarebbe finito coinvolto in una storia molto più grande di lui.
Il blasone del potentato mafioso dei suoi parenti valse a Francesco Urso “l’immunità e l’esenzione dalla punizione per l’agguato perpetrato ai danni di Luigi Cona”, ha sostenuto il procuratore aggiunto Sergio Demontis. Diversamente da quanto accaduto “al meno inserito Salvatore Sciacchitano (che tutti chiamavano Mirko, ndr), brutalmente assassinato poche ore dopo”.
Urso aveva deciso di punire Cona per uno sgarro, forse per la divisione di alcune somme di denaro. Credeva di potere fare pesare il suo cognome e le sue parentele. Mafioso è il padre, Giuseppe, e mafiosi sono lo zio e il nonno, Cosimo e Pietro Vernengo. Pezzi da novanta del mandamento di Santa Maria di Gesù. Anche Cona, però, avrebbe goduto di protezioni importanti. Innanzitutto, quella dell’anziano boss Salvatore Profeta, ma è anche nipote di Gaetano Cona, sorvegliato speciale, condannato per droga e arrestato per estorsione nel 2014.
Il 3 ottobre 2015 Urso si fece accompagnate da Sciacchitano, a bordo di uno scooter, davanti alla rosticceria di Cona, nel rione Falsomiele. Impugnò la pistola e lo ferì al piede. In realtà, Urso per primo, capì di averla fatta grossa e dopo la morte di Sciacchitano decise di allontanasi da Palermo per rientrarvi solo quando le acque si calmarono.
Le microspie piazzate dai carabinieri del Ros registrarono le diverse reazioni delle donne di mafia. Le mogli dei presunti killer capirono che, il giorno dell’omicidio, stesse per accadere qualcosa di grave. Le microspie captarono tante voci. “Sono tutti pronti… ho paura… chissà dove stanno andando”, diceva una vice femminile. “L’ho visto… ma che è successo… dice che sono pronti… chissà dove stanno andando..”, aggiungeva un’altra donna. C’era chi si sorprendeva del fatto che i mariti si fossero scambiati i vestiti: “… perfino la giacca di Francesco ha messo”. Un’altra non riusciva a trattenere la tensione: “… io ho paura… Signore… Gesù… Ma perché io non riesco più a guidare…”.
Nei nastri magnetici delle intercettazioni è rimasta impressa anche la voce di un’anziana. Francesco Urso parlava con la nonna Provvidenza. Ha un cognome pesante, Aglieri. “Che c’è da fare? – chiedeva la nonna al nipote -. Dobbiamo ammazzare a tutti?… che si deve fare la guerra, si deve fare?”. Poi, invitava il nipote a guardarsi le spalle: “Io ti dico, stai attento perché non lo so che cosa avevano in mente… così la cosa si è calmata… così dicono a nonna”. Forse la sete di vendetta si era placata con la morte di Schiacchitano. Forse alla fine il peso mafioso della famiglia di Urso aveva davvero messo le cose a posto.
Urso si era rifugiato a Milano. La madre Rosa aveva cercato di convincerlo a seguire un codice di comportamento mafioso. Doveva rientrare in città per farsi interrogare dai carabinieri solo dopo aver ottenuto il consenso: “Statti bello calmo che facciamo le cose belle sistemate… hai capito? Qua c’è troppa chiacchiera. È buono che vedono l’ombra… già subito lo sanno peggio della questura è. Hai capito che cos’è? Per questo io ti dico. Noi dobbiamo fare le cose belle che non dobbiamo avere il torto, ora facciamo le cose che mi hanno de… capito? Che io ho parlato con mio cugino, hai capito? Ora mi ha detto, non ti preoccupare che ora risolviamo, tutto a posto”. Il cugino è Cosimo Vernengo, un un altro pezzo grosso della mafia di corso dei Mille.