Nella tragica storia di Catania si incrociano due problemi che hanno in comune la penombra fitta che li circonda. La scintilla è scaturita dallo sfregamento: la probabile follia di un uomo solo e la certa follia dell’ambiente che lo circondava. Non a caso, parliamo di due spine conficcate nella carne di una società e di alcune istituzioni che, a riguardo, sanno solo prendere la scopa dell’indifferenza per spazzare la polvere sotto il tappeto. Basta che sia allontanata dagli occhi. La follia dell’individuo coincide col dramma dell’abbandono, dell’assenza di presidi, con l’angoscia di esistenze desolate destinate a precipitare da altissime vette, anche quando hanno (e, a maggior ragione, se non hanno) il supporto di un contesto familiare che faccia da gabbia e rudimentale terapia. La follia delle vite sotto chiave, delle carceri, soprattutto di quelle siciliane, è talmente stratificata da rendere difficile l’uso di parole nuove per descriverla e delimitarla. Ed è incredibile che le uniche frasi che si spendono siano improntate all’occultamento di una chiarissima verità di mortificazione, un disastro punteggiato dal sangue dei detenuti che si ammazzano, spesso in silenzio, e degli agenti che impazziscono, gli uni e gli altri legati alla stessa ruota del supplizio. Ci sarebbe solo un modo per rendere meno amara questa storia amarissima. Dovremmo trovare il coraggio per parlare delle spine e poi per togliercele dalla carne. Il sangue sotto il tappeto comincia a oltrepassare i bordi, le linee di confine della nostra fragile indifferenza.
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