CATANIA – Si è sentito tradito. E così ha deciso di “tradire” il clan Scalisi di Adrano e vuotare il sacco alla magistratura. Giuseppe Liotta è uno dei pentiti adraniti che negli ultimi anni ha scelto di fare il salto del fosso. Strada quella della collaborazione con la giustizia che percorre direttamente dal carcere. I suoi verbali sono inseriti già in diversi processi e hanno permesso di inchiodare i boss del clan Santangelo. Storici rivali della cosca in cui ha militato. Ma in realtà anche lui ha trascorso un breve periodo anche con i Santangelo, cosca azzerata nel blitz Adranos.
Torniamo al tradimento. “Nell’agosto del 2011 ero stato incaricato da Carmelo Scafidi di uccidere Francesco Coco – racconta – incarico che ho accettato ritenendo che tale decisione fosse condivisa da tutto il gruppo. Invece dopo il fallimento dell’agguato, non solo ho scoperto che il gruppo era all’oscuro di tale decisione, ma Scafidi scaricò su di me ogni responsabilità, negando di avermi commissionato l’omicidio”. Liotta avrebbe rischiato la vita per questo attentato. “Hanno tentato di uccidermi per due volte fino a quando sono stato definitivamente tratto in arresto nell’ottobre 2013”.
Una carriera criminale costruita in due clan. Cosche rivali. “Ho fatto parte di entrambi i gruppi operanti ad Adrano: sia in quello dei Rosano, riconducibili al clan Santangelo e collegati ai Santapaola di Catania, sia in quello degli Scalisi, riconducibili al gruppo Laudani. Nel primo gruppo – racconta Liotta – ho operato dal 2006 dopo la mia scarcerazione fino a luglio 2007, in seguito sono transitato nella famiglia Scalisi agevolato dal rapporto di parentela con Pietro Maccarrone, che è mio zio. In tale ultimo gruppo venivo utilizzato per qualsiasi esigenza, dagli omicidi alle estorsioni. Nel 2006 sono entrato nel gruppo della famiglia Rosano capeggiato da Vincenzo Rosano tramite il mio amico Giovanni La Rosa che già era con loro, e mi occupavo prevalentemente di spaccio di stupefacenti”.
Giuseppe Liotta svela la mappa del clan Santangelo. “Ho conosciuto Giuseppe La Mela detto Tarantella, Antonino Quaceci, Antonino Bulla detto u picciriddu, Giovanni Santangelo detto giannetto che è nipote di Alfio Santangelo, Dal 2007 sino alla mia collaborazione iniziata a luglio 2015 ho sempre fatto parte del clan Scalisi”.
Il pentito dipinge anche la linea di successione del clan. Un cambio di comando macchiato dal sangue. “Ricordo che nel 2011 quando io sono uscito dal carcere il responsabile era Antonino Santangelo figlio di Alfio che era stato messo a fare il capo in mancanza di altri che erano detenuti. Poi successivamente, dopo la morte di Nino Santangelo, ricordo che avevano un ruolo di comando e importante nel clan Salvatore Crimi, quale fratello di Nino Crimi genero di Alfio Santangelo, e Antonino Quaceci, genero sempre di Alfio Santangelo”. Al posto del boss di “sangue” ai vertici ci sono Nino Quaceci e Nino Crimi, due degli indagati chiave dell’inchiesta Adranos.
Ma c’è un altro personaggio che ad un certo punto avrebbe preso le redini degli alleati adraniti dei Santapaola-Ercolano. “Nel 2014 dopo il blitz detto “binario morto” in carcere a Piazza Lanza erano arrivati Pietro Santangelo detto “48”, Longo Salvatore e Angelo Lo Cicero nonché altri ragazzi del gruppo e ricordo che con loro ho parlato del clan Santangelo e di quelli che erano rimasti fuori. Loro come responsabile operativo parlavano di Salvatore Crimi”. Ma nonostante questo la verità è una “il capo indiscusso era sempre Alfio Santangelo.” Nella mafia il sangue è sangue.