CATANIA – Massimiliano Salvo, boss del clan Cappello di Catania, resta relegato al 41bis. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo presentato dai difensori, gli avvocati Giorgio Antoci e Davide Giugno, avverso al provvedimento firmato dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Il figlio di Pippo U Carruzzeri affronterà quindi l’udienza preliminare del processo scaturito dal blitz Penelope (indagine che lo ha portato in cella) dall’istituto penitenziario di Novara, dove resta – appunto – detenuto al 41bis. Gli esiti investigativi dell’inchiesta condotta dalla Squadra Mobile di Catania hanno portato Massimiliano Salvo al regime carcerario riservato ai boss più pericolosi. Il Tribunale nell’ordinanza ha evidenziato i pareri della Dna e della Dda di Catania dalle quali emergono le “ragioni di ordine e sicurezza pubblica” che stanno alla base di un provvedimento detentivo di questo tipo. L’obiettivo è azzerare il rischio di qualsiasi legame “con esponenti della cosca catanese liberi ed operanti all’esterno”.
“Salvo – si legge nell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma – è indiziato di essere stato l’organizzatore, anche nel periodo di sorveglianza, della cosca Cappello”. Salvo sarebbe “subentrato al padre Giuseppe Salvo, conosciuto come Pippo U Carruzzeri, attualmente detenuto e già condannato per avere fatto parte dell’associazione mafiosa Cappello”. Ad inchiodare Salvo numerosi collaboratori di giustizia, tra cui l’ex killer dei Carateddi (frangia armata dei Cappello) Gaetano D’Aquino e un ex esponente del crimine organizzato siracusano, Giuseppe Raffa. Le intercettazioni, i filmanti e i riscontri investigativi dell’operazione Penelope scattata lo scorso gennaio hanno permesso di cristallizzare la sua posizione di vertice all’interno del clan, che ha la sua roccaforte a San Cristoforo. In particolare Salvo avrebbe gestito un fiorente traffico di stupefacenti, in piena concorrenza con i Nizza.
Ma c’è un particolare inedito messo nero su bianco nell’ordinanza dei giudici romani. Ci sono i riscontri sulle tensioni, già anticipate da LiveSicilia, tra i Cappello e i Nizza soprattutto per la gestione delle piazze di spaccio. La Dda di Catania, nel suo parere sul pedigree criminale di Salvo e “a riprova del ruolo di capo” ha menzionato il pestaggio organizzato da boss dei Cappello (nel 2016) nei confronti di Salvatore Nizza, detto Mpapocchia, fratello di Andrea all’epoca dei fatti latitante e capo del gruppo mafioso che porta il suo nome. Una violenta aggressione. Turi Nizza aveva il volto tumefatto. Le indagini della Squadra Mobile hanno evidenziato come immediatamente dopo, a scopo forse preventivo, il gruppo avesse adottato “particolari misure di protezione nei confronti di Salvo”. In ogni occasione il boss era “scortato nei suoi spostamenti da numerosi sodali armati, che viaggiavano a bordo di scooter”. Una circostanza che “dimostra – scrivono i magistrati – il prestigio goduto da Massimiliano Salvo tra gli adepti alla cosca”.
I difensori, gli avvocati Antoci e Giugno, ricorreranno in Cassazione.