PALERMO- Stamattina al Civico si sono ‘svegliati’ – anche se in realtà non dormono mai – con una buona notizia: la dottoressa che si era aggravata per il Covid sta meglio. Dopo che abbiamo raccontato delle sue condizioni, tanti si sono sintonizzati sulle onde di una affettuosa apprensione perché, seppure la sua storia è stata narrata in forma anonima, parecchi hanno capito tutto. Forse è strano, forse no. Se incontri una persona indimenticabile, appunto, non la dimentichi più. E quella ragazza dalla risata contagiosa che ha scelto il pronto soccorso, che ha rifiutato di andare, pure di recente, in reparti ritenuti più sicuri, perché la sua missione, senza togliere nulla agli altri, è combattere in trincea, ha grande spazio nel cuore e nella mente di molti. Così, al primo accenno, ecco ravvisata la fisionomia.
Due parole sulla terapia utilizzata al pronto soccorso dell’ospedale Civico: nel caso della dottoressa è stato usato anche plasma iperimmune, chiesto e ottenuto per quelle situazioni specifiche previste dai protocolli. C’è la necessaria prudenza su una cura ancora sperimentale e nessuno dice che sia stata l’unica risorsa benigna. Ma, insomma, nell’esperienza dei medici, i casi in cui il plasma funziona aumentano. Dunque, è questo il ragionamento che, sempre con molta cautela, si svolge sotto traccia: non sarebbe opportuno cominciare a considerarlo un’arma disponibile oltre le restrizioni che attualmente ne comprimono la diffusione?
“La solitudine dei pazienti”
Il dottore Massimo Geraci, che del pronto soccorso del Civico è il comandante in capo, racconta un po’ gli stati d’animo, né ha mai rinunciato a esprimere un’opinione, equilibrata e controfirmata, mettendoci la faccia, il camice e la competenza, quando richiesto. E fa bene. La sanità dovrebbe essere in ogni momento un mondo trasparente, un acquario esposto agli sguardi, figuriamoci adesso, quando la paura richiede informazioni accurate, precise e molteplici.
“Ci colpisce molto la solitudine dei pazienti Covid – dice il dottore Geraci che è pure uno che qualcosa l’ha visto nel corso della sua carriera – resi tali dalla malattia che li ha travolti. Quando passiamo, lasciamo spazio a una pacca sul piede, a una carezza. E cerchiamo di aiutarli nelle comunicazioni con le famiglie”. Medici, infermieri e personale che reggono cellulari, che organizzano videochiamate, che si fanno in quattro per alleviare quel doppio senso di pena e di sgomento di persone che si scrutano, ognuno vedendo se stesso nel vicino di letto. Intorno, la fragilità condivisa e distante dall’una e dall’altra parte dell’ingresso che può separare i parenti e i malati.
Come raccontava la dottoressa Francesca Gaia Provenzano, in forza all’ospedale di Partinico: “Ci sono le terapie, ma ci sono anche le parole per confortare, i baci dei parenti da portare. I parenti che sono lontani, perché chi ha il Covid è solo. E allora ci vuole qualcuno che sia il tramite dell’amore. Mettiamo i telefonini dei pazienti sotto carica, ci preoccupiamo se non mangiano, stiamo con loro in ogni frangente, io non esco mai dal reparto”. Chi combatte la guerra del Coronavirus al fronte ha sviluppato un profondo e allargato senso del sostegno reciproco, come talvolta accade nelle più cocenti avversità. Non ci si può abbracciare, ma i contatti continuano a scorrere tra gli esseri umani.
“Lottiamo contro un mostro”
“Pronati, ventilati con respiratori….. con la speranza di sopravvivere. Classificati in base alle aspettative di vita….. Classificati in base ai litri di ossigeno…. Uomini e donne che si sentono morire e… noi con loro. Ci sentiamo inermi e sconfitti. Lottiamo contro un mostro più grande di noi…”. Così scrive su Facebook la dottoressa Tiziana Maniscalchi, direttore facente funzione del pronto soccorso dell’ospedale ‘Cervello’, un’altra persona valorosa sulla trincea della pandemia. Chi parla con i medici, con gli infermieri, con tutti coloro che indossano un camice, sa quanto sono sfibrati. Una pesantezza che stride con la leggerezza di chi almanacca sul pranzo di Natale o sul cenone di Capodanno, come se non ci fosse la guerra.
L’esercitò della Sanità è stremato e chiede un po’ di tregua, nell’impegno di turni massacranti, vissuti con l’ansia del contagio, nonostante le protezioni che danno riparo a molto ma non a tutto. Qualcuno che indossa un camice scrive i suoi pensieri nelle chat private, raccontando giorni difficili, misti a un bisogno di speranza tanto più importante sotto il peso degli eventi. E il desidero più acceso riguarda i familiari: “Spero che i miei cari stiano bene”. Ma c’è forse un timido raggio di sole, nonostante tutto, che va sfruttato per riscaldare gli animi, senza perdere l’appiglio con la realtà e con la gravità del frangente. Stamattina, i pronto soccorso Covid palermitani, il Civico e il ‘Cervello’, presentavano accessi non piccoli, però ridotti, rispetto ai giorni scorsi. E il messaggio che arriva è questo: teniamoci forte e diamoci reciproco coraggio. La tempesta finirà.