Quando ascoltai per la prima volta i versi del XXXIII canto del Paradiso dantesco, Roberto Benigni era ancora impegnato a girare “il Mostro” e “Johnny Stecchino” e così a farmi apprezzare la bellezza di quel canto ci pensarono i non sempre interessanti banchi di scuola dove, fortunatamente, capita ogni tanto di trovare un docente innamorato di quel che fa. Mi ricordo ancora quell’ultima ora di scuola di un sabato primaverile in cui i versi del Sommo Poeta frenarono per la prima e forse unica volta la nostra ansia di fuggire, e se chiudo gli occhi mi sembra ancora di sentire quella voce che dolce e severa declama la “santa orazione” di San Bernardo alla Vergine.
In tempi di minima moralia, di vita femminile, e in fondo anche maschile, offesa più che il bisogno della piazza sento il bisogno di tornare a quell’immenso canto per ritrovare, non tanto la dignità della donna, ma la donna stessa nella sua essenza. C’è un’espressione di questo magnifico ultimo canto del Paradiso di Dante che ancora mi rapisce per la profondità teologica e per la sua inaudita bellezza e verità: «nel ventre tuo si raccese l’amore…». L’idea che nel ventre della Vergine di Nazareth si accenda l’amore di Dio per gli uomini è stupenda, come stupendo è il fatto che nella donna, nel suo grembo materno venga generato l’Amore. Di questa incredibile realtà erano assolutamente consapevoli gli antichi israeliti: nella Bibbia infatti si contano almeno 60 aggettivi al femminile riferiti a Dio e per più di 260 volte si parla di rahamim cioè di viscere materne del Signore.
La dignità o forse meglio la grandezza della donna sta proprio in questo essere tempio dell’amore, in questa unica e straordinaria capacità generativa d’amore. Non si tratta solamente di una bella visione della maternità, ma di qualcosa di più profondo, cioè della straordinaria capacità delle donne di far splendere nella loro vita, e di riflesso in quella degli uomini, quella scheggia di eternità insita nel cuore di ogni essere umano: l’amore. Così possiamo guardare alle donne della nostra vita come a santuari dell’amore che a volte abbiamo visitato devotamente fino ad arrivare ad una mistica estasi oppure come turisti distratti, incuranti dell’importanza del luogo. Nella nostra mente si succedono velocemente, come le immagini di un viaggio lontano, le figure femminile che nel bene e nel male fanno parte della nostra vita. Ci sono le nostre madri che nel proprio grembo hanno sperimentato l’accendersi dell’amore e sono sfiorite tentando ogni giorno di rinnovare questo miracolo e ci sono anche le nostra maestre per alcuni chiocce premurose e per altri la prima donna di cui innamorarsi.
C’è quella che per la prima volta ci ha fatto battere forte il cuore e ci sono anche quelle donne che da blasfemi dell’amore abbiamo profanato e bestemmiato. E ci sono soprattutto loro le nostre mogli, fidanzate e compagne o più semplicemente le donne della nostra vita, quelle che ci aspettano sempre, che dimenticano i nostri errori, che riescono a mettere in ordine le nostre cose e che sono con noi anche quando tutto va male. Sono le donne che hanno saputo insegnarci che cos’è l’amore. E tra queste ci sei anche tu (e qua il lettore sarà indulgente con l’umanità dell’autore), che leggi queste mie righe nella speranza che non siano la solita bella lezione di quel ridicolo e insopportabile professore che sono io.