Si sa come sono gli aerei. Anche i più forti, all’apparenza, affrontano il decollo con una inconfessabile apprensione. L’atterraggio è un’altra cosa. Hai già smaltito la tensione del volo, sei più sereno. Atterrare a Palermo comporta certi beccheggi che ti rendono inquieto. E tutto quel mare inclinato. Ma non hai più paura. Se c’è l’altoparlante a rassicurarti.
La voce del comandante è l’appiglio degli inquieti. Scandisce la tranquillità del viaggio. Protegge. Quando la ascolti, ti convinci che nulla di orrendo potrà mai accadere. La voce del comandante è leggera, crepita piano, come se non volesse disturbare il silenzio, né l’ipnosi con cui il passeggero cerca di non spaventarsi, sussurrando a mezza bocca: “Avemariavemaria…”. Si presenta come un sottofondo suadente. Non contano le parole, ché nessuno ci bada e nessuno le rammenta. E’ il suono che ti culla, ipnotizzando l’ipnosi.
La voce del comandante si insinua leggera, come quella della mamma nel dormiveglia di un bambino. E’ lì per scacciare i demoni. Per propiziare buoni incantesimi, nell’ora difficile dello stacco da terra. Ed è una disgrazia subire voci antipatiche, nervose, taglienti, di ottimi piloti. Le percepisci come un presagio di sciagura, mentre scrivi l’ultimo messaggino a coloro che ami e che non abbandonerai mai durante il volo. Ti terranno per mano, fino a terra, quando dimenticherai.
Quel giorno la voce del comandante era bellissima. Come tante. “A Palermo tempo buono”. Il ragazzino osservò incuriosito il cielo, la signora pensò alla cena, l’uomo in ultima fila stiracchio le gambe, rilassato.
E poi fu Ustica.
