Aci Castello, quando Pippo sparò | "Ma il nostro amore è ancora vivo" - Live Sicilia

Aci Castello, quando Pippo sparò | “Ma il nostro amore è ancora vivo”

Le scene del dolore ad Aci Castello dopo la strage

Quindici anni fa, la strage di Giuseppe Leotta. Chi ha sofferto, adesso ricorda. E dice che...

Aci Castello, gli anni Ottanta, la pizzeria un po’ fuori mano che vantava nel menu una gigantesca coppa alla frutta. Aci Castello, l’estate, il cuore nero delle sue pietre laviche, screziato dal candore dei gelsomini. Aci Castello, la piazza con l’antico maniero, i faraglioni, in lontananza, sulle luci del mare. Il tanfo di urina tra gli scogli di ‘bagnaculo’ che si confondeva con il profumo delle alghe. Le discese ardite da via Cesare Battisti, la corsa fino alla scalinata per il tuffo, il municipio con l’orologio, il canotto di Claudio, la baracchetta dei gelati, una canzone di Franco Battiato a sfumare: “Da una finestra di ringhiera, mio padre si pettinava, l’odore di brillantina si impossessava di me”. Poi, un giorno, Pippo sparò e macchiò la favola col sangue che non si lava via.

Di quell’indimenticabile due maggio di quindici anni fa, restano le immagini negli archivi. La gente che piange e si stringe, ognuno addosso al suo vicino, perché non riesce a crederci. Il cadavere di Pippo che si era tolto la vita, dopo averla tolta, tra le panche di una chiesa. Un crocifisso sullo sfondo, due poliziotti, il viso dell’assassino suicida riverso in un lago rosso. Erano state ammazzate cinque persone. Pippo, Giuseppe Leotta, le aveva ammazzate, era fuggito e aveva concluso la sua esistenza nel finale di una cupa tragedia.

Quell’atroce due maggio ancora non smette di telegrafare la sequenza di una strage. Ecco il killer che irrompe sulla scena. Cosa arma la mano di Giuseppe-Pippo, precario del municipio, trentadue anni? Cosa lo muove? Sono tutte friabili ipotesi dell’irrimediabile. Forse un rancore terribile e ingiustificato. Forse la richiesta ossessiva di un’altra mansione, divampata in follia: una fragilità cattiva di fantasmi annidati nella testa che vede tutto il mondo nemico e, contro quel mondo indifeso, apre il fuoco.

Leotta entra in azione che è mattino.  Frammenti di sequenze impazzite. Spara a Giuseppe Castorina, 66 anni, pensionato, che prende il sole su una panchina. Entra negli uffici comunali e accumula vittime. Spara al sindaco, Michele Toscano, 45 anni, medico, ginecologo, conosciutissimo nel paese che gli voleva bene e che l’aveva eletto. Spara a Salvatore Li Volsi, 37 anni, lavoratore socialmente utile. Spara a due impiegate, Rita Mammino, 43 anni, e Maria Cappadonna, 34 anni. Muoiono tutti. Nelle cronache dell’epoca la sequela di morte appare intercambiabile, come se le rifrazioni della violenza fossero diverse, mutando la visuale.

Pippo sequestra un automobilista, Annibale Caponnetto, agente di commercio, salendo sulla sua macchina, una Fiat Marea. Arrivano tutti e due al santuario ‘Madonna delle Salute’ di Vittoria, in provincia di Ragusa. Qui, il fantasma di un uomo, rivolge la canna contro se stesso. E si uccide. “Ma il nostro amore ha vinto, è ancora vivo…”. E il telegramma dell’odio si eclissa di colpo.

Il nostro amore ha vinto. Una frase impegnativa, sincera e nobile per colei che la pronuncia, Silvia Raimondo che del sindaco Toscano era l’amatissima moglie e che prese in carico la fascia tricolore del marito, candidandosi “per portare avanti il suo lavoro”.

Quindici anni dopo, meno qualche giorno, la signora Silvia è a Palermo, in gita, con un gruppo affezionato di amici. Ha un bel sorriso a fior di labbra. Sorride pure con gli occhi, seduta al tavolino di un hotel. Accanto a lei, Anna Maria Toscano, sorella di Michele. Insieme raccontano il coraggio di chi ha continuato a respirare, a essere felice, nonostante tutto.

“Mio marito era un appassionato del melodramma, dell’opera – è Silvia a cominciare, richiamando l’odore di incenso delle esequie -. Al funerale, suonarono l’intermezzo della ‘Cavalleria rusticana’. Michele mi aveva confessato che la sinfonia di Mascagni gli rammentava la vita e la morte nella loro pienezza. Lui amava la vita e non pensava di morire così. Si fidava degli altri. Era buono per istinto. Era legato alla famiglia, in una concezione allargata che comprendeva pure i miei parenti. Era generoso. Nel suo ambulatorio chi non poteva permetterselo non pagava mai”.

Interviene Anna: “Mio fratello lavorava in continuazione. Correva di qua e di là. Si presentava all’improvviso: ‘Non ti preoccupare, ‘a soru, fammi un caffè, dammi una fetta di torta che mi riposo un po’…’. Si metteva in poltrona. Sonnecchiava cinque minuti. E ripartiva”.

Un sorso d’acqua tonica, un socchiudersi di palpebre nel fiammeggiare delle ombre. Silvia continua: “Mi sono innamorata di Michele che avevo tredici anni. Lui ne aveva diciassette. Mi affacciavo al balcone e, in strada, vedevo questo ragazzo alto, bellissimo, che tornava, piano piano dalla piazza. Me lo mangiavo con gli occhi. Lo osservavo fino a quando non rincasava. Una sera pure lui iniziò a guardarmi. Ci siamo fidanzati che avevo sedici anni. Quattordici anni di fidanzamento, quattordici di matrimonio”. Cos’è che costruisce un grande amore? La tenerezza del mare sugli scogli? La luna sul castello? Il gelsomino?

Silvia risponde alla domanda silenziosa: “Eravamo sempre insieme, senza invasioni, senza pesantezza, con la libertà di cercarci. Mi telefonava: ‘Bimba, ho un’ora di buco. Passo e ci andiamo a bere un caffè a Taormina…’. Era leggero, Michele. Mi manca la condivisione, mi manca il suo non esserci fisicamente. Nostro figlio è il miracolo più riuscito. Aveva quasi sette anni quando il padre morì. E’ cresciuto senza rancore, senza risentimento, senza chiudersi. E’ un ragazzo amato da tutti. In tanto dolore, noi possiamo dirlo: abbiamo avuto Michele. Sì, ho perdonato”.

Anna Maria Toscano si asciuga una lacrima che non voleva essere notata: “E’ un destino. Michele è in ogni istante con noi. Ogni volta che partiamo, qualcuno viene a parlarci di lui. Anche in Trentino, qualche tempo fa, una signora mi ha chiesto: ma tu sei la sorella di Michele Toscano?”. “Anna” – così ne sussurra il nome la cognata – e Silvia si congedano e vanno a cena, con le loro ombre gentili. Di là, ci sono altri castellesi. Alcuni di loro hanno sperimentato da vicino quel due maggio.

“Sono rimasti pezzi indelebili di memoria– dice il sindaco di Aci Castello, Filippo Drago -. Tutta la nostra comunità non ha mai dimenticato quella assurda strage. Abbiamo intitolato l’aula consiliare alla memoria di Michele Toscano e, idealmente, a tutte le vittime”.

Non scorderò mai mio zio Michele e i cari amici che morirono, Giuseppe Castorina, Rita Mammino, Maria Cappadonna, Salvatore Li Volsi – dice lo scrittore Luigi Pulvirenti, penna sensibile, figlio di Anna Maria -. Per me, mio zio più che uno zio era un fratello maggiore. Arrivai al municipio e vidi il corpo del povero signor Castorina. C’era mia zia Silvia accasciata, distrutta, aveva perso la mamma da poco. Credo che il padre di Leotta sia morto di crepacuore. Il perdono? E’ una cosa difficile da spiegare, è un cammino diverso da persona a persona. Forse non è nemmeno così importante. Io non odio nessuno”.

Balconi e lampioni che vegliavano i ragazzi innamorati, la coppa alla frutta, il mare e la piazza, quel macramè di nostalgie che regala al petto guizzi inaspettati: “Ed era come un mal d’Africa, mal d’Africa…”.

Poi, quel due maggio di quindici anni fa, quando Pippo sparò e uccise, spargendo sale di dolore e lacrime. La gente che scappa e si chiude a chiave nelle villette. La paura. I familiari che si stringono e piangono sulle scale del Comune. Il nero della pietra lavica macchiato dal sangue. Ma i gelsomini di Aci Castello hanno resistito, sono sopravvissuti. I gelsomini sono ancora lì.

 

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