PALERMO – Un’alternativa ad Alternativa popolare. Adesso anche i sopravvissuti sono pronti ad abbandonare Angelino Alfano e la sempre più ristretta cerchia di fedelissimi. Il risultato siciliano ha fatto da detonatore. Ma lo smantellamento di quello che si è rivelato un “partitino”, più che il grande catalizzatore di voti moderati che era nelle aspirazioni del leader, è già iniziato da un po’. La Caporetto di Ap, la disfatta evidente ha prodromi chiarissimi e non sta solo dentro le urne del 5 novembre. Le tensioni, insomma, portate fin dentro la conferenza programmatica di Roma, in Sicilia erano già emerse in maniera visibilissima e sono descrivibili anche attraverso la lunga teoria di facce che hanno deciso, a ridosso delle elezioni regionali, di lasciare il partito.
Tanti, tantissimi dirigenti alfaniani in Sicilia hanno tagliato la corda appena in tempo. Tornando nella casa madre del centrodestra. E non si parla di seconde file. Da Francesco Cascio, ex presidente dell’Ars, fino a poche settimane fa coordinatore regionale del partito e da sempre vicinissimo ad Alfano, passando per Pietro Alongi a Palermo, per Nino Germanà a Messina, Giovanni Lo Sciuto a Trapani, da mesi è tutto un fuggi fuggi dal leader. E tra i tanti andati via, qualcuno è pronto a scomettere: “Ap sta per esplodere definitivamente”.
A questi nomi, poi, andrebbero aggiunti i tanti che sono riconducibili ai Centristi di Casini e D’Alia, che si erano “fusi” in Alternativa popolare. Perché nel frattempo Ap ha trascinato nel “poco più di nulla” dei consensi anche quella che era l’Udc guidata dal politico messinese che appena cinque anni fa aveva la forza di scegliere, lui per prima, persino il candidato governatore del centrosinistra (cioè Crocetta). Dall’Udc solo negli ultimi mesi in tanti hanno traslocato in massa verso casa Cesa, cioè nuovamente nel centrodestra, portando con sé simbolo, acronimo e voti. Altri big del consenso nell’Isola, infatti, come Mimmo Turano a Trapani, Pippo Sorbello a Siracusa, Margherita La Rocca Ruvolo ad Agrigento avevano già mollato l’ex ministro e il suo alleato ministro in carica.
A proposito di Agrigento. Lì, nella provincia di Angelino va ritrovata la sintesi di ogni cosa. Da un lato si può trovare ciò che resta del granaio di voti di Ap, cioè qualche fedelissimo resistente, e allo stesso tempo, il fallimento del progetto che in Sicilia ha suonato come un tonfo. L’8 per cento lì, che è il doppio del 4,2 per cento conquistato in Sicilia e inutile anche per il solo ingresso all’Ars, è pur sempre molto meno di quanto hanno fatto altri partiti centristi del centrodestra: i popolari autonomisti di Romano e Lombardo e lo stesso Udc di Cesa, capaci di ricevere tra gli 8 e i 9 mila voti in più di Ap, a casa Alfano.
Ma ad Agrigento, come detto, si possono ancora ritrovare segni di ciò che fu il “Nuovo centrodestra” poi, forse per pudore di fronte al sostegno convinto al governo Pd di Renzi e Gentiloni rinominato “Alternativa popolare”. Cosa resta poi di Ap in giro per l’Isola? Poco o niente. Una “danza” attorno a un misero 4 per cento nella Palermo del coordinatore Misuraca, nella Messina dell’ex ministro D’Alia, e persino nella Catania di Castiglione e Firrarello. Poi, numeri da prefisso: 1,8 a Caltanissetta, 1,2 a Ragusa, sotto l’un per cento addirittura a Enna e Trapani.
C’è, però, l’eccezione aretusea: a Siracusa Vincenzo Vinciullo e Gaetano Cutrufo hanno spinto il partito fin sopra il 9 per cento. Tutto inutile: niente seggio, nonostante il pieno di voti. E così, ecco che anche questi risultati alimentano i mal di pancia, la diffidenza verso il leader. Il sospetto, insomma, che Alfano abbia mandato allo sbaraglio i dirigenti locali, pur di tener fede a un patto nazionale con Renzi. “Si è esaurita – ha lamentato Vinciullo dopo il voto in una intervista al Giornale di Sicilia – la fase in cui ho mostrato lealtà assoluta. La stessa lealtà non c’è stata nei confronti miei. Ci hanno messo in lista sapendo di mandarci a morire. Con le liste che il partito ha fatto a Enna, Caltanissetta e Trapani non c’erano speranze di superare lo sbarramento e questo i vertici del partito dovevano dirlo in tempo. Invece ci era stato garantito che avremmo fatto un grosso risultato a Palermo, Messina e Catania ma le percentuali sono state ugualmente troppo basse”. L’ex presidente della commissione bilancio punta il dito anche contro gli alleati Centristi: “Il loro candidato a Siracusa ha portato 5 voti..”.
Insomma, il tempo della pazienza è finito. Ed è evidente anche leggendo le parole di un’altra fedelissima di Alfano. “I risultati ottenuti da Alternativa popolare in Sicilia sono stati deludenti oltre ogni previsione” ha tuonato Simona Vicari. E quei numeri sarebbero il frutto, si legge sul suo sito ufficiale di “numerosi errori di valutazione politica e di comunicazione da parte di tutto il gruppo dirigente del partito. Nonostante le liste presentate fossero pulite, sono stati candidati anche ex componenti del governo Crocetta, uno dei peggiori governi della storia della Sicilia che sarebbe stato meglio non sostenere fino alla fine”. Un vero e proprio processo, insomma, ai big del partito, quelli che ancora resistono, che ancora provano a raccontare la favola che, tutto sommato, nonostante la Sicilia, Ap sia un partito in grado di superare lo sbarramento alle politiche.
E oggi il leader senza truppe Alfano, nel corso della conferenza programmatica, ha provato a rispondere ribadendo di “non avere nulla a che fare con una certa destra. Siamo pronti ad andare da soli, con i nostri valori e i nostri programmi”. Ma da soli rischiano di andare davvero Alfano e i pochi fedelissimi attorno a lui. In Sicilia gli altri guardano già altrove. E gli alfaniani delusi, gli ultimi rimasti, hanno puntato lo sguardo verso i gruppi moderati di centrodestra, anche per l’impossibilità, a questo punto, di rientrare in Forza Italia. Ma già dall’Isola potrebbe partire, anzi è già partito, il ripopolamento di quell’area politica che potrebbe diventare la “quarta gamba” del centrodestra alle prossime politiche. Con Alfano o senza. Soprattutto senza.