Il boss latitante Gerlandino Messina, numero uno della lista dei ricercati più pericolosi d’Italia, è stato catturato oggi pomeriggio a Favara. A catturare Messina sarebbero stati i carabinieri di Agrigento, Ros e Gis. Il mafioso, secondo indiscrezioni, era nascosto in un appartamento al secondo piano di una palazzina del centro storico. Secondo prime indiscrezioni non sarebbe l’unico arrestato. Al momento dell’arresto il boss, che ha ammesso la sua identità, era da solo e armato. Nell’operazione non ci sono stati feriti. Insieme al boss di Porto Empedocle sarebbero finiti in manette anche tre presunti fiancheggiatori.
Gerlandino a Favara c’era già stato. La cittadina a due passi da Agrigento potrebbe essere stata l’isola felice del superlatitante. Un’oasi di latitanza forse, però, troppo vicina alla patria del boss, Porto Empedocle. Giusto un anno fa, i poliziotti della squadra mobile di Agrigento avevano trovato, nel cuore di Favara, un garage, covo papabile del superboss. Non ci furono mai conferme che quel monovani – arredato alla buona, ma senza che mancasse nulla per vivere decorosamente – fosse stato davvero il rifugio del boss.
Eppure, pochi mesi fa, per verificare l’occorrenza, la madre del boss – malgrado la sua ferma opposizione – fu sottoposta al test del Dna.
Esito secretato, forse per evitare che si allargasse un cerchio ormai strettissimo intorno al boss.
Favara: un ingenuità per Gerlandino?
Secondo alcune fonti potrebbe essere stato così.
Ma, da quanto trapela, Messina non aveva altra scelta, se non la latitanza a due passi da casa, con tutti i rischi che questo comportava.
Gerlandino poteva contare solo sull’appoggio di quel tipo di mafia: arcaica, circoscritta, timorosa che il sanguinario potesse sparare ancora.
Da sempre, infatti, secondo fonti investigative, Messina contava sul sostentamento dei favaresi. Una consorteria fatta di pizzo a tanti zeri, maturato nell’ambito dell’imprenditoria guastata da Cosa nostra.
Favara, infatti, è il comune italiano con più imprese edili, delle quali – una sì e una no, ha soggetti coinvolti in inchieste di mafia.
Gerlandino Messina, probalbimente, viveva di questi appoggi: pochi fiancheggiatori, neppure troppo in alto dentro la consorteria, ma riverenti quel tanto che basta, per potere mantenere la fuga del boss.
Lui, l’empedoclino, che aveva iniziato a sparare neppure a vent’anni, non poteva permettersi la latitanza d’Oltralpe, come fece Falsone. Non aveva lo stesso appeal di Linghi linghi, nè la stessa maniera di ragionare sugli affari di mafia, al punto da farli diventare un business. Sapeva, però, seminare terrore. Sul suo conto criminale sono caricati crimini su crimini: dal coinvolgimento nell’agguato al maresciallo Guazzelli, fino al concorso nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo.
La corsa di Gerlandino l’hanno fermata i carabinieri del reparto operativo di Agrigento, agli ordini del maggiore Salvo Leotta, in collaborazione con i Gis e con il Ros. Si trovava in via Stati Uniti, in una palazzina come tante, a pochi passi dall’ingresso del paese. Si vocifera che con lui siano stati arrestati altri tre fiancheggiatori. La voce non è confermata.
Quel che è certo è che dopo undici anni, dal lontano Capodanno del ’99, Gerlandino non è più in fuga. Lui, uno dei trenta superlatitanti più pericolosi d’Italia, il capomafia designato, dopo l’arresto di Falsone, ha terminato la sua corsa.
L’hanno trovato armato di due calibro nove, ma per nulla aggressivo al momento della consegna.
Lo hanno trovato per come se lo aspettavano e per come erano certi che lo avrebbero preso