PALERMO – L’arresto di Alessandro D’Ambrogio, nel 2013, avrebbe creato un vuoto di potere a Ballarò. Fino a quando non sarebbe stato deciso di affidare a Salvo Mulè il controllo del popolare rione. Così racconta ai pm il neo pentito del Borgo Vecchio, Giuseppe Tantillo.
“Ballarò era diciamo scoperta perché Di Giacomo si occupava del mandamento di Porta Nuova ma a Ballarò ci voleva una persona fissa… non c’era più nessuno che faceva da supervisore quindi hanno incaricato Giuseppe Di Giacomo e Stefano Comandè di occuparsi di visionare diciamo la zona di Ballarò”.
La scelta non cadde subito su Salvo Mulè. Di Giacomo, che sarebbe stato crivellato di colpi nel 2014 per le strade della Zisa, “nel primo momento non voleva perché diceva che già aveva il padre che era consumato, fratello consumato ci mancava che poi lui si consumava”. Il riferimento era ai guai giudiziari che avevano già colpito la famiglia Mulè. L’iniziale titubanza, però, sarebbe stata presto superata: “Ma dopo Di Giacomo lo ha convinto, ha iniziato a interessarsi per il mandamento di Palermo Centro che Ballarò dopo che è successo la morte di Di Giacomo e da allora si è sempre interessato lui Palermo Centro”.
Tutti i protagonisti di quella stagione sono oggi in carcere. Lo scorso dicembre il clan di Porta Nuova è stato azzerato da un blitz dei carabinieri. L’inchiesta ha svelato che a Ballarò stava per esplodere una guerra di mafia. La gestione di Salvatore Mulè, affiancato secondo l’accusa da Alessandro Bronte, aveva creato inimicizie. I malumori principali erano legati alla spartizione dei proventi della droga. E così Mulè rischiò di essere ammazzato, mentre Bronte fu pestato a sangue.
La sera del 16 ottobre 2014 giunse una telefonata al 113. La chiamata partiva da una cabina di via Armando Diaz, nel rione Brancaccio. “… domani mattina devono ammazzare Salvo Mulè del Ballarò…”, diceva una voce maschile. I carabinieri lo convocarono e gli salvarono la vita. Pochi giorni dopo il pericolo scampato i carabinieri filmarono Mulè mentre incontrava il reggente del mandamento, Paolo Calcagno, in un pub. Secondo gli investigatori, l’incontro servì a Mulè per rientrare nei ranghi. Forte della parentela con il fratello Massimo, che presto sarebbe stato scarcerato, Mulè aveva creduto di potere fare la voce grossa a Ballarò.
Per Alessandro Bronte, interlocutore privilegiato di Teresa Marino, moglie del reggente del mandamento Tommaso Lo Presti (marito e moglie sono in cella così come lo stesso Bronte, ndr) scattò la spedizione punitiva. Bronte individuò in Alfredo Geraci e Giovanni Rao i presunti responsabili del suo pestaggio e avrebbe preteso l’intervento a sua difesa di Calcagno: “… gli ho detto, tu vuoi che io devo lavorare per guadagnare soldi? dice, gli ho detto… e mi fa dice ‘si’… gli ho detto, va bene allora tu mi devi portare a Giovanni e Alfredo, dice ‘no’ dice… gli ho detto… mi hai detto no per portarmi due drogati figuriamoci per le cose più grosse… gli ho detto, quando tu mi porti a loro qua noi altri possiamo fare l’affare”. Le stesse intercettazioni avrebbero svelato che Calcagno non accontentò Bronte. Si sarebbe rifiutato di punire gli autori del pestaggio.