Bordello! - Live Sicilia

Bordello!

Davide Enia ha scritto anche per noi una favola triste su Palermo. Una favola amara e senza lieto fine. Abbiamo scelto un titolo che prende a cazzotti lo stomaco del lettore. Non ci pentiamo di questa irritualità. Forse, c'è rimasta soltanto la forza - anche crudele - delle parole.
UNA FAVOLA SULLA CITTA' COL NOME DI PORTO
di
8 min di lettura

Lui era fatto così, non era colpa sua. L’avevano abituato fin da piccolo a chiedere aiuto a Suo Cugino. Tutti (quasi tutti) temevano Suo Cugino. Suo Cugino parlava e tutti “Braaaavo Signor Cugino”. Suo Cugino raccontava barzellette e tutti “Ahahahahah, minchia cianchi Signor Cugino”. Era uno simpatico, Suo Cugino. Organizzava nella sua villetta festazze indimenticabili, cantava canzoni di sentimento e (si è già scritto) amava raccontare barzellette. Adorava stare al centro dell’attenzione, Suo Cugino. Poteva permetterselo. Era ricco, Suo Cugino, ricchissimo, talmente tanto impicciolàto che era impossibile sapere con certezza dove nei suoi confronti finiva il rispetto e dove iniziava la strategia dell’adulazione per tornaconto personale. Ma lui a Suo Cugino lo rispettava davvero dal profondo del cuore. In fondo, era merito suo se era a capo della piccola città-col-nome-di-porto. E poi, suo Cugino stampava certe festazze che a lui ci piacevano tantissimo, più che andare in barca e più che sorseggiare tra amici compiacenti qualcosa di fresco alla locanda. Sì, lui a-do-ra-va le festazze del Cuginone. Ma ciò che davvero lo faceva impazzire di piacere era: ridere. Lui rideva sempre. Godeva di questa immagine di se stesso tutto sorriso. Passava ore e ore e ore davanti allo specchio a sbiancarsi i denti. E rideva, rideva, rideva. Adesso, ahilui, era qualche ora che non rideva più. Era successo un piccolo problemuccio. Un ingargetto. Nella fastidiosa città-col-nome-di-porto qualcosina non era girato per il verso giusto. No, stavolta la colpa non era di quegli zoticoni dei suoi cittadini, no. Loro si accollavano tutto: il traffico chiuso alle carrozze poi riaperto poi richiuso poi riaperto, che intanto che ‘sta girandola chiudi-apri andava avanti erano stati costretti p’una mano a pagare a testa 15 denari per un pedaggio che mai si fece. I denari, come è ovvio, non furono mai più restituiti. Sì, è vero, ci furono bla bla bla e moti di sdegno, ma si sa, alla fine la storia aveva insegnato che gli abitanti della smemorata città-col-nome-di-porto si accollano di tutto e di più. “Guarda un po’ -pensava tra sé e sé osservando il ghiaccio sciogliersi lentamente nel bicchiere pigramente tenuto nella mano destra- si sono accollati pure quando abbiamo smesso di raccogliere i rifiuti nonostante loro avessero già pagato per questo servizio”. Questa ultima considerazione lo fece sobbalzare un attimino. L’argomento “piccioli”  lo riportava sempre a pensare a Suo Cugino. Lui stravedeva per Suo Cugino. Era eternamente circondato da donne così giovani e belle. E poi piaceva tanto alle persone, aveva una parlantina ottima e minchia festazze… sì, ci sapeva proprio fare. Lui invece mica tanto. Infatti era un po’ che non si faceva vedere nella distratta città-col-nome-di-porto. Se ne stava rinchiuso in casa a giocare, da solo, un gioco strano in cui si colpisce con un pezzo di legno una pallina gialla. La semplicità lineare di quel gioco lo faceva sentire bene, non c’erano problemi che lo angosciavano dentro i morbidi confini di quel gioco, non si parlava di lavoro o salute o cultura in quei momenti, no. Quando sentiva il suono sordo che il legno creava quando colpiva la pallina, quel suono gli apriva il viso in un sorriso se possibile ancora più grande. Nelle notti buie amava pensare che dentro di sé, nella sua testa, i suoi pensieri più intimi e profondi possedevano quel suono sordo e rassicurante. Allora dormiva benissimo.

Invece adesso era successo un bordello! Ora, lui non aveva capito se era colpa dei cavalli che mangiano assai (“bestie di merda”, pensò, ma poi se ne pentì, si diceva che Suo Cugino amava i cavalli, soprattutto gli stalloni), se era colpa delle carrozze e della loro continua manutenzione, ma alla fine, strincèndo ‘u sùco, il problema era che non c’era più biada per i cavalli né chiodi per le carrozze. Il risultato era che nessuno era più in grado di levare la munnìzza. Il primo impulso (com’era quel proverbio che dice che il primo impulso è sì impulsivo ma è quello giusto?), il primo impulso fu: la colpa è di chi amministra cavalli e carrozze. Fu talmente contento di questa intuizione che si regalò davanti allo specchio uno dei suoi più sfavillanti sorrisi. Si sentì così bene che di colpo nulla esistette più, non il problema della biada mancante, non le carrozze rotte, non la città agonizzante tra i rifuti. Lui rideva e stava così bene. Dolce suono di pallina che rimbalza nella testa. Il risveglio dall’idillio fu improvviso e poco piacevole. “Il popolo si lamenta r’u fèto”; dissero brutalmente i suoi consiglieri, gente spiccia abituata a bere volgarità, incapace soprattutto di colpire al volo col legno le palline gialle che rimbalzano. Ma se lui era ancora lì, al potere, era perché era appoggiato da loro, tutti devoti di Suo Cugino, e loro lo mantenevano saldamente al potere solidarizzando sempre con lui e mai con quegli zotici dei cittadini (anche se, a onor del vero, qualche minchiatuccia era stata commessa, ma l’importante era continuare ad affermare che “tutto va bene, tutto è perfetto, la colpa è di quello che c’era prima, cornuto lui e tutta la sua razza”, e poco importa se loro per una insolita triangolazione astrale erano al potere dappertutto: città-regione-stato. Loro, i consiglieri, là stavano, fedeli a lui e a Suo Cugino. Peccato avessero giurato fedeltà alla afflitta città-col-nome di-porto, ma chìsta è n’àutra storia e non ora non qui.

“So come risolvere il problema del fèto”, si pavoneggiò lui davanti ai consiglieri. Rideva ed era felice. Era il suo momento. Tutti lo osservavano in un silenzio carico d’attesa. Li avrebbe sorpresi con la sua sagacia. Ma non subito. Prima avrebbe sorriso a tutti. Tre quarti d’ora dopo, appena ebbe terminato, pronunciò solenne la sua brillante riflessione: “Miei fidi consiglieri, la soluzione al problema munnìzza è: facciamola pagare a chi ha male amministrato cavalli e carrozze!”. Prese il silenzio dei consiglieri come un plauso alla sua genialità. Sorrise così intensamente che in testa gli esplose un concerto di palline. Era così felice in quel momento che desiderò persino morire, lì, davanti a tutti, all’apice dell’ostentazione del suo talento. Il risveglio dal sogno fu però duro e violento come quando si arrocca una pallina e non si può più fare quel giochino che a lui piaceva tanto.
“Non possiamo incolpare l’amministratore di carrozze e cavalli”, dissero in coro freddamente tutti i consiglieri.
“Perché?”, balbettò lui incredulo.
“Perché lo hai nominato TU. E sarebbe come ammettere una TUA colpa”
“Minchia danno”
“Minchia sì”
“E ora che ci conto a Mio Cugino?”
Quella notte dormì malissimo. Sognò addirittura di lavorare.

Suo Cugino abitava lontano, in un posto chiamato la-villa-che-manco-nei-fumetti. Andò da Suo Cugino senza sorridere. Sapeva che quegli zotici dei suoi sudditi avevano già pagato, e pagato il giusto. La colpa del danno era di una màla amministrazione. E poi, ‘sti cavalli, ma quanto minchia mangiano… Ma se c’era qualcuno che aveva piccioli a tignitè, quello era Suo Cugino. Ci poteva giurare. Purtroppamente non era (più) così. Suo Cugino aveva da poco venduto il fuoriclasse della sua squadra di galli da combattimento. Chichì si chiamava quel galletto. Bello, elegante, letale. Suo Cugino l’aveva giurato davanti a tutti: io a Chichì non lo venderò MAI. Infatti tempo quattro mesi e ualà!, passò un mercante spagnolo, ci posò un fràcco di piccioli rinnànzi ed il galletto Chichì non c’era già più, sparito, via, olé. Adesso la situazione era un po’ più grave. Suo Cugino era abile a promettere. Prometteva sempre. A volte, parlava addirittura di miracoli. Una promessa solenne fu: “Meno gabelle per tutti”. Ma qui si trattava proprio di alzare le gabelle! Lui in quel momento maledì la sua posizione, ma perché non potevano lasciarlo in pace a colpire palline gialle che rimbalzano? Ah, vero, lui era a capo della fastidiosa città-col-nome-di-porto. Si fece forza ed espose il problema a Suo Cugino.
Poi Suo Cugino gli parlò, lui annuì tutto il tempo e, tranquillizzato, riprese la strada per l’ingrasciàta città-col-nome-di-porto.
Aveva ottenuto quello che voleva: una legge speciale per alzare le gabelle a tutti i cittadini della assoggettanda città-col-nome-di-porto. Le promesse? Le promesse sono parole, e le parole hanno il peso del vento. La libertà? E non è libertà alzare le imposte? E poi, diciamocelo francamente, ma quanto cazzo mangiano ‘sti cavalli, eccheminchia!
La via del ritorno era splendida, la sua barca era sapientemente governata da un abilissimo marinaio e le onde erano culla e carezza. Gli era perfino tornata la voglia di ridere. Mormorò tra sé e sé, solenne ed intenso: “Com’è che recita quell’antico adagio? Ah, sì: lo zotico si accolla di tutto, e di più, basta che tu prometti e ce l’avrai sempre in mano e messo bello a novanta gradi, eh eh eh”. Fu così che rientrando nella calpestata città-col-nome-di-porto smise di domandarsi se l’avrebbero rieletto. Non importava più. Adesso sapeva. Non era questa la domanda. Lui aveva le spalle coperte, i consiglieri erano da sempre pronti a spalleggiarlo e, soprattutto, lui adesso possedeva la forza di una grande verità comunicativa: negare, negare sempre, negare soprattutto l’evidenza, tanto alla fine non vince chi ha ragione, vince sempre e soltanto il più forte. E la forza (cioè il denari) erano dalla sua parte.
Sorrise al massimo delle sue possibilità, si versò da bere ed immaginò una montagna di palline da colpire. La notte prima di alzare le imposte dormì benissimo. Sognò di una città che affogava nella sua stessa merda.

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