A 42 anni dall’uccisione di Antonio Burrafato, maresciallo in servizio presso la Casa Circondariale dei Cavallacci di Termini Imerese, ad opera di un commando mafioso, il figlio Salvatore, attuale presidente di Gesap, ha scritto un articolo per ricordare la figura del padre a cui ha dedicato il libro “Tutta un’altra storia”, presentato il 26 giugno a Roma nell’aula Malagodi della Fondazione Luigi Einaudi.
La Memoria ha un futuro? Senza scomodare la categoria “sciasciana” della memoria, siamo certamente di fronte a un bivio.
Da un lato, è stato forte il rischio che l’Antimafia si trasformasse in strumento di potere ed arricchimento. Di converso, la liquefazione dei fatti, l’oblio e la banalizzazione del fenomeno mafioso sono il segno di una generale stanchezza sociale nel percepire, analizzare e contrastare la criminalità mafiosa.
Uno sforzo di comprensione
È necessario uno sforzo per comprendere la realtà che ci circonda, gli avvenimenti, le persone, le costellazioni di piccoli e grandi fatti criminali che ancora oggi sono la cronaca quotidiana di una Sicilia che spesso, inconsapevolmente o no, vuole rimanere drammaticamente fedele a sé stessa.
L’analisi del fenomeno mafioso sembra letteralmente scomparsa e ci si adagia sempre di più, nel raccontare trame e misfatti, verso quel “folclore tenebroso” di cui si nutre la narrativa mafiosa.
Un velo di scoramento
Così, nel ricordare ancora una volta la memoria di mio padre, un uomo delle Guardie Penitenziarie, Antonino Burrafato, avverto un velo di sospensione, di scoramento. Come se la grande battaglia contro la mafia fosse stata vinta, derubricata, mandata in archivio per guardare oltre.
Di successi ce ne sono stati. La mafia corleonese è stata disarticolata e distrutta. Ma avere la certezza di avere sconfitto la mafia e il sentire mafioso è altra cosa. Sto esagerando? Non credo, ed affido il mio punto di vista alle parole dell’ultima relazione semestrale della Dia al Parlamento.
L’adattamento della mafia
L’analisi degli investigatori antimafia “restituisce uno scenario della criminalità organizzata italiana che conferma come le organizzazioni mafiose, da tempo avviate ad un processo di adattamento alla mutevolezza dei contesti socio-economici ed alla vantaggiosa penetrazione dei settori imprenditoriali, abbiano implementato le capacità relazionali sostituendo l’uso della violenza, sempre più residuale ma mai ripudiato, con strategie di silenziosa infiltrazione e con azioni corruttive”.
Il virus, dunque, è forte e vive con noi, tra di noi. Non serve, o serve a poco sparare. La nuova frontiera è il business, la mafia dei colletti bianchi.
La nuova immagine delle cosche
Sempre la Dia ci ricorda che le cosche si stanno “liberando dal modello di una mafia di vecchia generazione, aderendo piuttosto alla nuova ed accattivante immagine imprenditoriale, l’uso della tecnologia assume un ruolo determinante per l’attività illecita delle organizzazioni criminali, che con sempre maggiore frequenza utilizzano i sistemi di comunicazione crittografata, le molteplici applicazioni di messaggistica istantanea e i social”.
La ferita che non rimargina
La memoria, dunque, è fondamentale. A me, disgraziatamente, viene facile coltivare la memoria perché la ferita inferta alla mia famiglia non è di quelle che si possono rimarginare.
Per questo continuerò testardamente a celebrare la memoria di mio padre e quella di tutti i caduti nella lotta alla mafia. E’ un dovere necessario, altrimenti, prima o poi ci si dovrà pentire di aver cantato vittoria troppo presto.