Calunnia, Cosenza alla sbarra |Le contraddizioni del pentito - Live Sicilia

Calunnia, Cosenza alla sbarra |Le contraddizioni del pentito

Il processo è entrato nel vivo. Ecco cosa è emerso.

il dibattimento
di
6 min di lettura

CATANIA – Un pentito alla sbarra. L’accusa è quella di calunnia. La più pesante per chi sceglie di diventare un collaboratore di giustizia. Giacomo Cosenza, una storia travagliata la sua come collaborante, sta affrontando il processo davanti alla Terza Sezione Penale del Tribunale di Catania, giudice monocratico Rosa Anna Castagnola. Cosenza, militante nel clan mafioso degli Sciuto-Tigna, ha puntato il dito contro un poliziotto. Un poliziotto che avrebbe “agevolato” il gruppo legato al boss Orazio Privitera. Accuse mosse nel 2013 e che si sono rivelate false: la Procura quindi ha chiesto il rinvio a giudizio del collaboratore di giustizia. Che è stato accolto.

Nel processo, che è entrato nel vivo, si sono costituiti parte civile il Ministero dell’Interno, rappresentato dell’avvocato Domenico Maimone, e l’Ispettore Superiore della Squadra Mobile Gaetano Buffo, assistito dall’avvocato Michele Ragonese. In ogni udienza – domani se ne svolgerà un’altra – l’imputato, in videoconferenza e attualmente detenuto, ha voluto rilasciare dichiarazioni spontanee. “Io non ho mai nominato questo ispettore, anzi mi scuso, pure, Buffo, non l’ho nominato mai di nome perché io non so neanche il nome di questo Buffo e non me l’hanno mai fatto vedere nelle fotografie per vedere se era lui o era un altro”. Cosenza è un fiume in piena. “Non lo conosco a questo signor Buffo, all’ispettore che c’è là”.

Le altre dichiarazioni del pentito sono particolareggiate sugli eventi. Eventi che bisogna mettere in ordine per poterli comprendere. E sono gli stessi protagonisti, chiamati come testi dal pm Santo Distefano, a metterli in fila. È l’ispettore Filippo Faro della Direzione Investigativa Antimafia a ricevere le prime confidenze del Cosenza. È sua una delle firme apposte nell’annotazione di servizio del 5 novembre 2013, acquisita agli atti del processo con il consenso di tutte le parti. Faro, rispondendo alle domande del pm, racconta che “da un’intercettazione si faceva chiaro riferimento a un collega che lavorava nel mio ufficio. Io in maniera poco ortodossa ho chiesto al Cosenza se fosse a conoscenza se qualcuno della Dia fosse vicino alla famiglia del boss Orazio Privitera (affiliato del clan Cappello, ndr)”. “Poco ortodossa” dice l’ispettore. E su questo aspetto si sofferma il magistrato: “Le era mai capitato prima rispetto a quell’occasione di fare domande a testimoni, testimoni di giustizia o comunque soggetti di interesse investigativo senza una specifica delega dell’Autorità Giudiziaria o dei suoi superiori gerarchici?”. “No, mai!”, risponde Faro. Sul punto il pm Distefano nel corso dell’esame al Tenente Colonnello Cristaldi (all’epoca dei fatti in servizio alla Dia di Catania) chiede se il comportamento dell’ispettore Faro fosse regolare. “Assolutamente no, non è regolare. È stata un’iniziativa del tutto autonoma dell’ispettore”. Il magistrato incalza: “E ci furono dei rilievi disciplinari? “No – ha risposto Cristaldi – almeno, non ne sono a conoscenza”.

Ma come si arriva al nome del poliziotto Gaetano Buffo? Nell’annotazione di servizio della Dia – che cita il pm nel quesito che pone all’ispettore Faro – ci si sarebbe basati su “una sorta di intesa di sguardi”. Faro racconta: “Noi dovevamo andare a prendere il Cosenza per effettuare alcuni sopralluoghi, ricordo che arrivai in via Ventimiglia, lui si trovava lì un poco prima dell’accesso alla Squadra Mobile con personale che si occupava della sua tutela. Quando sono arrivato, se non ricordo male, Cosenza mi diede un bigliettino dove c’era scritto “Isp. Tony Lancia Musa” e poi mi disse, mi fece capire che la persona di cui aveva parlato il giorno prima si trovava là ed io invece ce l’avevo di fronte”. Dal racconto del teste emerge che la parte offesa, l’ispettore superiore Gaetano Buffo, sarebbe arrivato alla Squadra Mobile a bordo di uno “scooter o vespone”. E Cosenza glielo avrebbe indicato. “Ma con le parole o con lo sguardo?”, chiede il pm. “No, no me lo disse con le parole – dice Faro – molto sottovoce, mi fece capire… Era chiaro che indicasse il collega Buffo, su questo non ho dubbi”. Nella relazione di servizio (datata 5 novembre 2013) invece si parla di “intuizione dell’ispettore Faro”. Ed è lo stesso Faro – rispondendo alle domande dell’avvocato di parte civile, Michele Ragonese – spiega che “l’intuito deriva essenzialmente dal comportamento del Cosenza che mi ha fatto capire che in quel momento chi stava parcheggiando la vespa con quel nome Tony potesse essere soltanto Tony Buffo”.

Un’intuizione, un metodo poco ortodosso, uno scambio di bigliettini e di sguardi tra un ispettore della Dia e un collaboratore di giustizia, una relazione di servizio del 5 novembre 2013. Tutto questo fece scattare un’inchiesta nei confronti dell’ispettore superiore della Squadra Mobile Gaetano Buffo che venne iscritto nel registro degli indagati per l’accusa di concorso esterno. Accuse che si sono rivelate false. Infatti l’inchiesta è stata archiviata. 


Appena termina l’esame dell’Ispettore Faro, l’imputato chiede ancora la parola. E fornisce la sua versione dei fatti riguardo all’incontro davanti alla Squadra Mobile la mattina del 5 novembre 2013. “È arrivato questo signore, l’ispettore che stava parlando ora e mi ha detto ‘guarda la è’, ma io ero girato di spalle, sono salito in macchina e ce ne siamo andati”. Cosenza evidenzia ancora che lui non ha mai fatto il cognome di Buffo. Ma che ha parlato di “Tony testa nica”. “Testa nica” è il soprannome con cui è conosciuto negli ambienti investigativi (e non solo) la parte offesa.

Un altro teste dell’accusa, il luogotenente della Dia Giovanni Puglisi, è chiaro: “È noto che il collega ha fatto molti lavori ed è noto anche il soprannome del collega”. Ma il teste rispondendo al pm chiarisce che “il collaboratore riferì solamente “Tony la guardia” e non il soprannome del collega”. Dall’esame di Puglisi emerge inoltre che il collaboratore di giustizia la sera del 4 novembre era stato “molto generico”. “Se lui aveva un riferimento preciso l’avrebbe dovuto fornire, poi si limitò a dire “vi potrei dire che si chiama…” ma non aveva elementi, non una descrizione fisica, né…”. “Sull’iniziativa” dell’Ispettore Faro di porre la domanda al collaboratore di giustizia, Puglisi ha una posizione netta: “Era una domanda che per me non andava fatta, non eravamo… non è rituale, non la doveva fare, ma purtroppo non è che potevo intervenire…”. Puglisi racconta poi che Cosenza l’indomani (il 5 novembre 2013, ndr) “prima a Faro e poi in sede di interrogatorio fu ricco di particolari non riscontrabili”. Su precisa domanda dell’avvocato del Ministero dell’Interno Maimone circa la possibilità che la memoria del collaboratore potesse essere inquinata, Puglisi risponde: “Guardi, per me è inquinata nella misura in cui non riconosce il soprannome del collega”. Puglisi, consapevole che l’iniziativa andava fuori da qualsiasi delega dell’autorità giudiziaria, chiese infatti al colonnello Cristaldi di bloccare qualsiasi attività. “Perché era un’attività che doveva fare l’A.G. (autorità giudiziaria) e non noi”.

Inoltre nell’interrogatorio del 5 novembre 2013, svolto davanti al pm, non fu predisposto alcun album fotografico da sottoporre al collaboratore di giustizia. Solo in seguito ne fu preparato uno. “Io so – racconta Puglisi – che nel secondo interrogatorio che poi fu tenuto dalla magistratura  ci fu richiesto di predisporre un album fotografico, però so che non è mai stato esibito”.

Nel corso delle udienze è emerso un fatto. Un fatto ben preciso. “L’Ispettore Tony Buffo è colui che ha arrestato Orazio Privitera da latitante”, a dirlo sono i testi del processo.

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI