PALERMO – La soluzione sembrava a un passo, ma è stata solo sfiorata: l’emendamento alla manovra che regolamentava coltivazione, commercio e tassazione della cannabis light ha fatto un buco nell’acqua. Il 16 dicembre il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha giudicato “inammissibile” la norma firmata Movimento cinque stelle reputandola in parte incoerente con la legge di bilancio. I negozi non dovranno chiudere, ma la speranza che il settore venisse messo a norma ha di nuovo lasciato il posto all’incertezza. Pochi giorni dopo, la Cassazione si è espressa, di fatto aprendo alla coltivazione della cannabis per uso personale.
Intanto, in Sicilia, chi ha deciso di puntare forte su questo business non ha intenzione di cedere all’ennesima battuta d’arresto e anzi si unisce per rafforzarsi, creando un fronte comune: così il ‘filo’ della canapa corre fra Palermo, Catania e la Puglia.
In Italia lo stop al Senato mette a rischio un potenziale giro d’affari stimato da Coldiretti in oltre 40 milioni di euro, che deriverebbe da coltivazione e vendita di piante, fiori e semi a basso contenuto di principio psicotropo (Thc). I numeri crescono vertiginosamente se si esce dalla sfera dell’agricoltura, considerando tutti i possibili usi e l’indotto: la società londinese Prohibition partners parla di una cifra tra i 7,3 e i 30 miliardi potenziali nel giro dei prossimi dieci anni, equamente divisi fra settore medico-farmaceutico e uso ricreativo. Nel limbo anche mille negozi su tutto il territorio nazionale, 800 partite Iva agricole specializzate e 1.500 nuove aziende di trasformazione e distribuzione, che contano diecimila addetti (dati sulla canapa industriale del Consorzio nazionale per la tutela della filiera).
Il capoluogo siciliano è la terra di #Light, brand fondato da Tancredi Bissoli nel 2017. L’azienda si occupa di canapa a 360 gradi, dalla produzione di infiorescenze ai settori alimentare e terapeutico, passando per la sperimentazione dei prodotti e la consulenza ad altre aziende del comparto; tutto all’insegna dell’ecosostenibilità e della sicilianità. Oggi Bissoli può contare anche su Mario Lorusso, nuovo responsabile commerciale, fondatore dell’azienda Roots e referente palermitano per il progetto ‘Cannabis for future’ che ha l’obbiettivo di sdoganare totalmente la canapa. “Nonostante l’emendamento non sia passato, continuiamo a versare l’Iva allo Stato pur non avendo nessuna tutela – precisano subito –. Fanno male anche le notizie che parlano di illegalità del settore, cosa non vera perché i limiti per commercializzare la cannabis light restano fissati al di sotto dello 0,5 per cento di Thc. In questo ambito l’Italia è il fanalino di coda – proseguono –, probabilmente perché la mentalità della vecchia classe politica accosta la canapa a una certa ideologia ormai retrograda. Qui si tratta di imprenditoria, lavoro e investimenti, non di politica”.
E in effetti in Italia il tema divide politica e giustizia, che spesso sembrano procedere in due direzioni opposte: l’ultima dimostrazione il 19 dicembre (due soli giorni dopo l’inammissibilità dell’emendamento alla manovra), quando le sezioni unite penali della Cassazione hanno deciso che devono “ritenersi escluse” dal reato di coltivazione di stupefacenti “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”. Una sentenza – della quale ancora si attendono le motivazioni – con cui la Cassazione tralascia anche il concetto di bassa o alta quantità di Thc, andando dritta al punto: secondo i giudici chi coltiva piante da cui estrarre stupefacenti per uso e consumo inequivocabilmente personali non può essere considerato un criminale.
Eppure il potenziale giro d’affari milionario della canapa rimane una chimera, finché la politica non darà risposte chiare. “L’indotto che genera il settore della canapa è immenso – spiegano Bissoli e Lorusso –. Si va dalle aziende che vendono semi a quelle che si occupano di vendita di prodotti agricoli, ma questo mondo coinvolge anche agronomi, commercialisti, avvocati, laboratori d’analisi, agenzie di comunicazione, grafici, aziende di trasporti. D’altronde ce lo si può aspettare, visto che dalla canapa possiamo ricavare alimenti, tessuti, bioplastica, materiali edili, medicinali, carta, carburante, e molto altro. Dall’altro lato però – osservano – la forte incertezza del settore ci ha costretti a rinunciare ad assumere dipendenti. Perché, in un periodo di crisi come questo, bloccare un comparto che potrebbe generare migliaia di posti di lavoro?”.
L’esperienza di Bissoli e Lorusso si incontra con quella dei coltivatori dall’altra parte dell’Isola, con cui sta prendendo forma una collaborazione. A Linguaglossa, alle pendici dell’Etna, c’è un’area di tre ettari in cui la canapa fa da padrona assoluta: da aprile 2018 è la casa dell’azienda ‘Canapa dell’Etna’, guidata da Fabio Pollicina e dei fratelli Carmelo e Michele D’Agostino, che sfrutta la biomassa della canapa in ogni sua forma: fornisce piante catalogate ad altri agricoltori, tratta le infiorescenze e dispone di licenza florovivaistica per coltivare su commissione; attualmente la coltivazione avviene in un’area di duemila metri quadrati, e ogni euro guadagnato è un investimento sulla produzione. Pollicina dà un’idea del potenziale volume delle vendite: “Se riesco a ottenere due tonnellate di prodotto in un ettaro coltivato, incasso già 50 mila euro. E questi numeri aumentano se la pianta ha un alto valore di Cbd (la molecola con proprietà medicinali, ndr): investendo 70 mila euro l’anno prima, quello dopo potrei arrivare a incassarne anche 200 mila. L’Etna ci sta dando grandissimi risultati e noi ci crediamo”.
Anche a Catania ricavi e prospettive future fanno i conti coi vari dietrofront della politica e i continui controlli delle forze dell’ordine. “Quando siamo partiti andavamo forti anche nella vendita nei tabaccai – commenta Pollicina –. Molti ci vedevano come dei pazzi che rischiavano, ma comunque per una buona causa; ora di colpo si parla di spaccio di Stato”. Le ricadute sono state pesantissime: “Abbiamo subìto un calo del 90 per cento: lavoravamo con 150 punti vendita in tutta la Sicilia, ora siamo sotto i 15. Ovviamente sono stati coinvolti anche i nostri dieci dipendenti diretti – aggiunge –, ora ridotti a sei. Per ora è tutto un investimento, e se domani ci dicono che la canapa è finita, siamo finiti anche noi. Saremmo costretti ad andare all’estero, come tutti i giovani italiani che hanno un sogno irrealizzabile in questo Paese, e con noi andrebbero via la cultura acquisita finora e la possibilità di creare lavoro. Se solo le istituzioni ci dessero i mezzi… Ma siamo considerati spacciatori”.
Le prossime mosse di chi crede nella canapa in Sicilia partono tutte da un presupposto: continuare a crederci. “Dobbiamo coltivare canapa – taglia corto Pollicina –, una pianta che ha così tanti usi e benefici che sembra assurdo anche solo poter pensare di bloccarla. Noi stiamo continuando a studiare, evolverci, fare prodotti di qualità; la regolamentazione è una necessità”. “Probabilmente la norma bocciata al Senato non era scritta nel migliore dei modi – ammettono Lorusso e Bissoli – ma avrebbe comunque accontentato gli addetti ai lavori, preoccupati dalla cattiva informazione e dall’accanimento di alcuni partiti politici. Adesso che il settore è nuovamente sotto la luce dei riflettori sarebbe il caso di proporre modifiche alla legge, che tutelino chi ha investito in questo settore, dall’agricoltore al negoziante. Noi continueremo a rispettare la legge, pagare le tasse e ponderare ogni decisione per via dell’ambiguità del settore. Non siamo spacciatori”.