Lasciamo da parte le statue e il marmo. Le statue non hanno occhi. Non soffrono. Se gli spari, scavi un buco, ma il sangue non esce. Rendiamo omaggio, nel giorno della festa del lavoro, a Giuseppe Giangrande, brigadiere dei carabinieri, in carne e ossa. E non, o non soltanto, perché l’abbiamo visto a terra, con un filo rossiccio sgorgato dal collo, ferito da un attentatore che è diventato l’emblema della colpa da affibbiare a qualcun altro. Diciamo grazie a Giuseppe per i momenti che hanno preceduto l’ultimo scatto, il clic che lo ha immortalato disteso sul selciato di Palazzo Chigi.
Lo ringraziamo per le sua qualità di persona normale, normalmente affettuosa, dolce, imperfetta, coraggiosa e testarda. Un uomo come noi siamo o come vorremmo essere. Ci sono storie che insegnano il punto: la normalità è il premio difficile da raggiungere. Pensiamo a Giuseppe Giangrande, con idee che lambiscono le lacrime. E’ giusto. La commozione ancora duratura, attraverso un ponte tra speranza e terrore, certifica lo stato in vita di un Paese derelitto. Siamo lerci, cattivi, odianti e odiosi. Non siamo davvero morti, se possiamo fermarci sulla soglia, insieme, al confine di una stanza d’ospedale.
Dovremmo provare ad andare oltre, a riavvolgere il filmato e a comprendere la vera ricchezza di Giuseppe, la sua umiltà di operaio della vita, con un uniforme addosso e un sorriso per le ore di servizio o per i turni liberi.
Questo Primo maggio è del brigadiere Giuseppe Giangrande. E’ di sua figlia Martina, che aspetta. Dei suoi familiari e dei suoi cari. E’ consacrato all’umiltà di chi si alza e va incontro, ogni mattina, alle sue mattine. E prima di uscire, magari, scrive su facebook: “C’è il sole”. Anche se fuori piove.