Scendono alla spicciolata i superbig della politica. Tutti in Sicilia per il rush finale in vista di domenica. La campagna elettorale è entrata in zona Cesarini e l’Isola la vive da protagonista, con gli occhi di tutt’Italia puntati addosso. È qui, e in Lombardia, che pare si deciderà la partita più aperta, quella per la maggioranza al Senato. I pezzi da novanta lo sanno bene e si fanno vedere nei giorni più caldi. Sabato è toccato al Cavaliere, col suo show al Politeama tra risate e mirabolanti proclami. Domani si farà vedere il professor Monti, che promette di infiammare l’Isola con quel suo eloquio pirotecnico che stroncherebbe l’ultimo nottambulo devoto a Marzullo. Mercoledì tornerà per la terza volta Pierluigi Bersani, stavolta in compagnia del candidato premier mancato Matteo Renzi, per parlare, forse, di smacchiature di giaguari. Grillo e Giannino hanno già dato, mentre Ingroia per ovvi motivi qui gioca in casa.
Insomma, ci sono pochi dubbi: la campagna elettorale è qui, in Sicilia. Ma viene da domandarsi dove sia la Sicilia in questa campagna elettorale. Sì, perché al netto di qualche numero da cabaret e di qualche slogan vetusto e arrugginito, non ci pare di averne vista troppa di Sicilia in questo confronto elettorale tutto concentrato sul fisco e poco, pochissimo su tutto il resto.
Prendete Berlusconi, per esempio. Quasi due ore di soliloquio, con battute sugli alimenti alla ex signora e un rosario di verbi declinati al futuro che stonano sulle labbra dell’uomo che ha governato il Paese per nove degli ultimi dodici anni. Stringi stringi, a parte la battuta sul dialetto siciliano in consiglio dei ministri, nella sua tappa palermitana Berlusconi di Sicilia ha parlato poco o nulla. Limitandosi all’auspicio di voler attraversare il Ponte prima di morire, che rivela probabilmente la sua intima convinzione di essere immortale. E il resto, presidente? La mafia, tanto per dirne una? Zero. Un silenzio quasi paradigmatico. Perché di lotta alla criminalità organizzata, i grandi protagonisti della sfida elettorale parlano poco o niente in questi giorni. Sì, c’è stato Fini, che però appropriandosi di via D’Amelio ha attirato su di sé legittime critiche. Ci pensano gli “specialisti” del genere a compensare il silenzio del Cav. Il problema è che molti di loro finiscono per parlare solo di mafia o di patrimoni da sequestrare ai presunti evasori, anche senza prove, come ha spiegato Antonio Ingroia a uno sbigottito Giovanni Floris a Ballarò. Ingroia vuole rimettere le mani sul bottino, lo ha elogiato in tv il primo aedo del giornalismo legalitario. Bene, e poi? Che ne facciamo di quel bottino, se si continua a sperperare denaro pubblico riversando fiumi di quattrini sottratti alle tasche di imprese e famiglie per tenere in piedi sacche oscene di assistenzialismo, clientelismo e spesa improduttiva?
È a questa domanda che ci piacerebbe sentire risposte in questi giorni. Una risposta chiara, che non si rifugi nell’ambiguo e comodo alibi del ‘no alla macellera sociale’. Una risposta che si assuma la responsabilità di rottamare il modello famelico di cosa pubblica che in Sicilia si mostra più che altrove in tutta la sua devastante voracità. Un Leviatano che ha preso forma nel corso de decenni, assumendo le sue dimensioni mostruose grazie all’alibi di quell’autonomia, diventata negli ultimi anni ideale vessillo delle più svariate avventure politiche. Con la conseguenza grottesca di una gara, dal sapore provincialissimo, tra “piccoli” che si sfidano al gioco dell’io sono più autonomista di te. Magari raccattando qua e là senza troppe remore sfollati e pellegrini ispirati dal sempiterno motto Franza o Spagna ma basta che se magna. Matura così il trasformismo indecente di queste settimane, la corsa maldestra ad accasarsi sotto gli araldi crocettiani alla ricerca di un passpartout per la sopravvivenza politica. Sarebbe tutto già abbastanza grottesco così, ma per non farsi mancare nulla tocca pure registrare l’indignazione di partiti che in questi anni hanno fatto dell’annessione di transfughi la propria cifra politica. Chapeau.
Fin qui il Palazzo. Fuori c’è la Sicilia, quella vera. Quella in cui la mafia torna a sparare a Palermo, l’edilizia popolare diventa sotto gli occhi di tutti un business gestito dai boss, le poche imprese rimaste chiudono sopraffatte da una crisi che in una terra già martoriata si abbatte come un colpo di grazia. È di questa Sicilia e di questo Mezzogiorno che vorremmo sentire parlare, magari in questi ultimi giorni di campagna elettorale. Dopo tante parole, ci piacerebbe intravedere, soprattutto dopo il voto, delle risposte. Che vadano oltre, possibilmente, il pur apprezzabile gesto della restituzione di parte dello stipendio. Ci piacerebbe che la questione meridionale tornasse all’attenzione del dibattito nazionale, per come merita. Fin qui ne abbiamo sentito parlare pochissimo. Soprattutto ai leader (escluso forse Nichi Vendola) protagonisti di questa incerta partita elettorale. Questo Sud e questa Sicilia sono malati gravissimi. Per i quali occorrono cure non più rinviabili. La sgradevole sensazione, in questi giorni pre-voto, è che a proporre al degente le ricette siano, ammantati di vesti da medico, gli stessi virus che lo hanno quasi ammazzato.