Ciancio, Ferone è il primo teste |Furto in villa, Catalano "sgridato" - Live Sicilia

Ciancio, Ferone è il primo teste |Furto in villa, Catalano “sgridato”

Il dibattimento entra nel vivo.

Concorso esterno
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CATANIA – Si evoca la storia della mafia catanese. Si fa un salto nel passato. Ai tempi di una Catania controllata a livello criminale da Giuseppe Calderone, il padrino di Cosa nostra freddato in un agguato nel 1978. A raccontare quella pagina sanguinaria è Giuseppe Ferone, primo teste del processo a carico dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il killer, autore dell’omicidio di Carmela Minniti, moglie di Nitto Santapaola fotografa gli assetti dopo la morte del rappresentante di Cosa nostra palermitana. Ferone segue Salvatore Pillera nel cartello mafioso che si contrappone a Benedetto Santapaola e resta in quel “clan autonomo” fino a quando decide di diventare collaboratore di giustizia (programma poi revocato, ndr). Una scelta maturata dopo le uccisioni del padre e del figlio. Un piano di vendetta che si consuma fino all’omicidio in via De Chirico a Cerza. A casa di Nitto.

“Nino Calderone, fratello di Pippo, aveva paura di Nitto Santapaola quindi gli passa tutte le sue conoscenze”. Pippo Ferone, in video conferenza da un sito protetto, risponde alle domande della pm Agata Santonocito. Per conoscenze intende imprenditori (“i cavalieri”, dice). E “anche i mezzi di informazione, certo”, risponde a domanda precisa del pm. Rileggendo le sue dichiarazioni di un verbale del 1995 spunta il nome di Mario Ciancio Sanfilippo. “E’ un amico, ci si può parlare”, racconta Ferone spiegando cosa si diceva dell’editore de La Sicilia nell’ambiente malavitoso. Non ci sono episodi precisi della stampa che il teste ricorda. “Si capiva che c’erano notizie oscurate”. Ferone fa le sue valutazioni: “C’erano delle persone amiche all’interno”. “Se in periodo in cui c’erano un sacco di omicidi i giornali continuavano a scrivere che la mafia a Catania non c’è, che vuol dire? L’informazione pilotata”, afferma Ferone rispondendo alle domande dell’avvocato Dario Pastore, legale dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, costituitosi parte civile nel processo. Diverse le domande dei difensori dell’imputato, gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. E nel corso del controesame emerge anche l’attentato che avrebbe subito il direttore de La Sicilia.

Il dibattito poi si fa più acceso nel corso dell’esame di Giuseppe Catalano, reggente negli anni Ottanta e i primi anni Novanta del quartiere San Giorgio della famiglia Laudani. Poi nel 1996 diventa collaboratore di giustizia per “vendicarsi di chi aveva ucciso anche amici miei” e anche “perché aveva saputo che lo volevano ammazzare”. Fuggito prima in Belgio e poi in Germania. “Dicevano che mi ero appropriato dei beni della famiglia. E il capo sofisticato voleva uccidermi”. “Chi è il capo sofisticato?”, chiede il pm Antonino Fanara. “Camillo Fichera”, risponde Catalano. Poi le domande si concentrano sul furto nella villa di Mario Ciancio in contrada Cardinale commesso l’11 marzo 1993. “Sapevo che c’erano cose importanti. Anche perché c’era stata ospite la principessa d’Inghilterra che poi è morta nella galleria”, racconta Catalano, autore del colpo. “Abbiamo rubato quadri, opere e anche un tappeto reale. Tra i quadri ce n’era uno anche che rappresentava la famiglia di Mario Ciancio. Quello l’ho fatto bruciare”. I giorni successivi al furto Catalano cerca di piazzare la refurtiva ma non ci riesce. “A Catania la merce non l’hanno presa”, spiega. Allora si rivolge a un ricettatore di Piazza Armerina che gli propone “un duecentomila euro”, ma Catalano non accetta perché sapeva che valeva almeno “un miliardo”. Poi il testimone legge su La Sicilia “un articolo su questo furto e offrivano una ricompensa di 50 milioni”. E poco dopo “sono interpellato dalla famiglia”. E va a un incontro in una villa di San Giovanni La Punta dove c’è Giuseppe Di Giacomo, all’epoca reggente dei Laudani, e tra gli altri anche Aldo Ercolano. “Sono stato rimproverato e sgridato per quello che avevo fatto. E mi hanno detto che la merce doveva tornare indietro perché quella persona era vicino ai Santapaola”. Insomma “Ciancio non si doveva toccare più”. “Io ho restituito tutto tranne il tappeto reale, che mi piaceva”. E Catalano fornisce una descrizione precisa. “Era lungo almeno 12 metri. L’ho dovuto piegare in due per metterlo su un tavolo che aveva. L’ho usato in una serata speciale”. Quel tappeto, poi, è stato ritrovato dai carabinieri su precisa indicazione di Catalano quando decide di collaborare. Non è chiaro invece quando è avvenuto il furto in un’altra villa di Ciancio dove sono stati rubati diversi fucili. Su questo punto sono diverse le contestazioni da parte della difesa di Ciancio. Non si ricorda il testimone se è avvenuto prima dell’incontro a San Giovanni La Punta con il nipote di Nitto, o dopo. “Ho restituito anche i fucili”, assicura però Catalano.

 


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