CATANIA – A casa sua aveva un trono con le iniziali incise, come quello su cui sedeva Al Pacino nel capolavoro cinematografico di Brian De Palma “Scarface”. E quando nel 2014 lo arrestarono, gli investigatori battezzarono quell’operazione proprio col titolo del film (Scarface), dando esecuzione a un’ordinanza che azzerava il clan mafioso dei Mazzei. Il cosiddetto gruppo dei Carcagnusi. Ma William Alfonso Cerbo, fino a pochissimo tempo fa, non aveva mai vuotato il sacco, nonostante una condanna a 7 anni (definitiva) per vari reati, tra cui associazione mafiosa.
Il pentito che sta facendo tremare i piani alti delle organizzazioni criminali – e non solo – tra la Sicilia e la Lombardia, passando per i più pericolosi della Camorra e della ‘ndrangheta, ha una storia che si presterebbe a una serie tv contemporanea. A lui nel 2023 la Guardia di Finanza confiscò un’autentica fortuna, stimata in circa 12 milioni di euro, “illecitamente accumulata”.
Le accuse al processo Scarface e la confisca
L’inchiesta Scarface riguardava accuse, contestate a vario titolo a 15 persone, di associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori, bancarotta fraudolenta e corruzione. Poi i finanzieri ricostruirono gli affari di Cerbo. Oltre a occuparsi di estorsioni, recupero crediti e bancarotte realizzate con metodo mafioso, avrebbe gestito attività economiche e imprenditoriali riconducibili al clan mafioso dei Mazzei.
Avrebbe re-investito i proventi nel circuito economico legale. E lo avrebbe fatto creando una galassia di imprese commerciali, associazioni sportive dilettantistiche ed enti senza scopo di lucro, intestati a prestanome, familiari e conviventi. Due anni fa, nel dettaglio, gli sono state confiscate cinque società commerciali, una moto e una lussuosa villa a Catania.
Le imprese confiscate, invece, operavano nei settori delle costruzioni di edifici, delle immobiliari e nell’impresa turistico-balneare. Le sedi operative invece si trovavano a Catania, Ardea, Castelfranco Veneto e Palmanova. Insomma: un vero tesoro accumulato illegalmente.
La mafia in Lombardia: un mostro a tre teste
Oggi è un collaboratore di giustizia, le cui tesi sono diventate importantissime al processo Hydra. Ha riferito, tra l’altro, di un pactum sceleris tra Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta per fare affari nella regione più ricca d’Italia. Ai pubblici ministeri ha raccontato di aver avuto un ruolo per conto del clan Mazzei a Milano.
Prima di iniziare a porre accuse nei confronti degli altri, ha infatti ammesso la sua “partecipazione al reato associativo”, ossia alla presunta alleanza tra Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, “quale affiliato e collettore economico a Milano del clan Mazzei”. Ha ammesso “tutti i reati di truffa e bancarotta” commessi per “agevolare il clan”.
I rapporti tra Cantarella e Corona
E ha parlato, tra gli altri, dei suoi rapporti con Gaetano Cantarella, scomparso per un caso di “lupara bianca” il 3 febbraio del 2020, vicenda che è una di quelle al centro del maxi procedimento milanese. Rapporti, in particolare, “legati dapprima al mondo delle discoteche”, si legge ancora, e ciò “in virtù” dei legami tra Cantarella e “Fabrizio Corona, che in più occasioni si rivolgeva a Cantarella quando aveva problemi”.

