PALERMO – “A Villabate non si muoveva foglia senza che i Mandalà lo decidessero”. Così, nel 2006, si pronunciava il gip di Palermo per giustificare l’arresto – il secondo – di Antonino Mandalà nell’ambito della vicenda riguardante il centro commerciale che sarebbe dovuto sorgere nel centro del palermitano. Nino Mandalà – tirato in ballo per la sua parentela col dipendente regionale trasferito da Crocetta – avvocato, appassionato di politica e col pallino degli affari, ha una condanna in secondo grado per mafia in quanto ritenuto il capomafia di Villabate. Un potere pressoché assoluto, quello de “l’avvocato”, generato anche dalla sua stretta vicinanza a Bernardo Provenzano che nelle campagne fra Bagheria e San Giuseppe Jato ha trascorso buona parte della sua latitanza. Ma niente spocchia da mafioso di borgata, nessuna uscita virulenta per il boss in doppio petto che fu il fondatore di uno dei primi club di Forza Italia, nella Villabate laboratorio straordinario di politica e mafia, dove si è arrivato all’assurdo della consegna di un premio legalità a Raul Bova che tanto bene aveva interpretato la figura del leggendario capitano “Ultimo” per uno sceneggiato televisivo.
Il potere di Antonino Mandalà, secondo le lunghe indagini della procura palermitana, stava nelle sue relazioni. Nel 1997 era anche nel coordinamento provinciale del partito berlusconiano, allora guidato da Diego Cammarata. Ma durerà poco, perché l’anno seguente sarà arrestato, coinvolto nell’indagine che avrebbe dovuto inchiodare anche il deputato forzista Gaspare Giudice, poi giudicato innocente. Ed era proprio una frase detta da Mandalà in un’intercettazione con l’onorevole su cui l’accusa aveva puntato molto: “Noi ti abbiamo messo lì…”. E il “noi” era proprio riferito a nome di Cosa nostra.
Ma non c’era solo la politica per Nino Mandalà. Gli affari incalzavano e, in particolare, avrebbe messo gli occhi sopra un’operazione da 200 milioni di euro per la costruzione di un centro commerciale a Villabate. Una questione che Mandalà avrebbe fatto arrivare al cospetto di Bernardo Provenzano, perché sull’affare la cosca di Villabate era entrata in conflitto con quella di Brancaccio. E il vecchio boss corleonese avrebbe sentenziato come suo solito, ovvero di farne due, per non scontentare nessuno.
Per questi fatti “l’avvocato” è stato nuovamente arrestato, nel marzo 2006, quando il pentimento di Francesco Campanella, ex presidente del Consiglio comunale di Villabate, ha aperto il vaso di Pandora del laboratorio politico-mafioso del paese alle porte di Palermo. E per il gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare, “i due Mandalà, si sono serviti della loro affiliazione alla mafia che in un piccolo centro come Villabate non ha neanche bisogno di essere esercitata in modo manifesto perché tutti sanno che ‘a Villabate non si muoveva foglia senza che i Mandalà lo decidessero’ così come riferito da Campanella”. Il giudice, infatti, poneva l’accento sulla capacità di relazione dei Mandalà con ambienti finanziari e imprenditoriali, anche fuori dalla Sicilia, e di alto livello e, di conseguenza, anche con professionisti, imprenditori, giornalisti ed esponenti della società civile, “molti dei quali in perfetta buona fede”. A questi si aggiungevano esponenti politici di vario livello, sia regionale che nazionale.
Campanella racconterà il potere assoluto di Nino Mandalà su Villabate dove anche il sindaco, prendeva ordini da lui, in particolare sul piano commerciale che il consiglio comunale avrebbe dovuto adottare per dare il via all’operazione centro commerciale. E, quando il sindaco non c’era, Mandalà riceveva amici e cittadini in cerca di favori nel suo ufficio. E a dirlo non è un pentito, ma un maresciallo dei carabinieri, Sigismondo Caldareri, ex comandante della stazione dei carabinieri di Villabate, che Mandalà – secondo le dichiarazioni di Campanella – avrebbe voluto accoppare a causa delle sue relazioni di servizio che avrebbero portato allo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose. Un piano che abortisce sul nascere perché Provenzano non avrebbe mai dato il suo benestare.
Ma Nino Mandalà, avvocato, presunto mafioso e politico, è anche un padre. Suo figlio Nicola è stato arrestato nel gennaio 2005 e dal carcere non uscirà più. Sulle sue spalle, oltre l’accusa di essere diventato il nuovo capomafia di Villabate, c’è anche l’omicidio di Salvatore Geraci. “Sento la responsabilità di un padre che non ha saputo evitare quello che è accaduto al proprio figlio. Il rimorso è diventato il mio compagno definitivo per l’emarginazione, la solitudine, l’angoscia, la responsabilità di mio figlio” ha detto Nino Mandalà. “Il pm ha definito mio figlio una figura sinistra – ha aggiunto poi – ma Nicola è solo una vittima sfortunata di un destino avverso. Per quanto mi riguarda io ho già subito la condanna peggiore che possa toccare ad un padre: la prospettiva di sopravvivere al proprio figlio”.
E, dopo aver scontato otto anni di carcere, Antonino Mandalà, tornato in libertà ma con il figlio in carcere, ha deciso di lanciare la sua sfida al 41 bis, “odioso e crudele” come aveva scritto nel suo blog nel novembre 2010. “Ho una discreta competenza in proposito e posso dire che uomini che hanno vissuto in quelle condizioni sono stati cambiati dalla sofferenza, istupiditi da consuetudini che si ripetono per anni ininterrottamente sempre uguali, sono diventati i malconci residui del contesto originario, non saprebbero neanche leggere la realtà esterna che si è nel frattempo determinata” scriveva. A quel post seguirono una baraonda di critiche e attacchi e Mandalà tornò nel silenzio, rotto nel settembre 2012 quando un nuovo post è apparso e l’argomento è rimasto lo stesso. “Dal mio non invidiabile osservatorio – ha scritto Mandalà – percepisco che mio figlio non è più quello di sette anni fa e constato lo smarrimento di mio nipote costretto a sottoporsi al martirio del colloquio mensile col padre, il vuoto del suo sguardo, la mia inadeguatezza a dare risposte alle sue domande mute e il mio terrore per le derive che possono nascere nel suo animo provato”.
Poi seguono un serie di citazioni colte – da Beccaria, a Montesquieu, a Locke – e un appello a liberarsi de “l’inferno di una condizione intollerabile quale è quella del 41 bis reiterato ininterrottamente per decenni”. Alle critiche piovute addosso è seguito un lungo silenzio. Che ancora permane.