CATANIA – Nino Di Guardo e Giovanni Barbagallo. Una storia dopo l’altra, da leggere con la medesima lente. Sono infatti impaginate consecutivamente le drammatiche testimonianze dei due ex sindaci, rispettivamente, di Misterbianco e Trecastagni. Comuni etnei sciolti (inutilmente) per mafia. Tratta anche di questo Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, saggio curato dall’associazione Nessuno Tocchi Caino (nello specifico da Pietro Cavalloti, Lorenzo Ceva Valla, Miriam Romeo), con prefazione di Sergio D’Elia, per i tipi di Reality Book e de Il Riformista.
La tesi
La tesi è tanto semplice quanto sconcertante. “Nel nome della santa guerra alla mafia sono stati rovesciati i principi sacri, le norme universali, le regole fondamentali dello Stato di diritto. Gli stessi processi e castighi penali, troppo garantisti e dagli esiti incerti, sono stati soppiantati da processi e castighi sommari e più di struttivi”. Quella sollevata dall’associazione nata per far scomparire la pena di morte dalla faccia della Terra, è un’accusa pesante: gli “scioglimenti per mafia hanno stravolto i risultati elettorali e umiliato le istituzioni rappresentative di base”.
La pietra dello scandalo poggia su di una constatazione: non sono pochi i comuni azzerati anche quando, a conti fatti, l’infiltrazione o non c’era o gli organi politici erano assolutamente estranei ai fatti. Il titolo della testimonianza di Barbagallo è assai esemplificativo: “Trecastagni, due dipendenti sono indagati ma non per mafia, il Comune viene sciolto per mafia”. Difficile riassumere la vicenda con altre parole. Tuttavia, l’onta resta. Sull’Ente, sugli amministratori, sulla Città.
Le parole
Venirne fuori è tutt’altro che facile. Essere persone perbene, in alcuni casi, non basta. Anzi, può risultare una paradossale aggravante. “Il problema delle infiltrazioni della criminalità organizzata – scrive Giovanni Barbagallo – nei Comuni esiste. Siamo in presenza, tuttavia, di evidenti limiti nella legge e nella sua applicazione. Non siamo contro lo Stato, ma moltissimi si sono chiesti se l’attuale normativa sia efficace e se corrisponda alle finalità che si propone. Non si tratta – continua l’ex sindaco – di rendere meno incisiva la lotta contro chi favorisce le infiltrazioni nella pubblica amministrazione, ma di adeguare lo strumento legislativo senza inficiare i diritti dei cittadini e i principi costituzionali”.
Sia per carattere che per storia, Nino Di Guardo ha toni assai più infuocati. Cinque volte sindaco, è stato il simbolo della Primavera di Misterbianco, stagione in cui la città riuscì a mettersi alle spalle una terribile scia di sangue e intraprendere il difficile cammino della legalità. La vicenda che ha portato allo scioglimento per mafia è complessa e passa anche dall’inchiesta della Dda catanese che ha portato agli arresti domiciliari il vicesindaco, Carmelo Santapaola, per intestazione fittizia di beni. Una vicenda che non riguarda strettamente il Comune, ma tant’è.
La rabbia
Di Guardo però non ci sta. “Sono caduto in una disperazione infinita, ho perso l’appetito e non riuscivo a prendere sonno. Alla morte civile e politica a cui ero stato condannato ho risposto con la lotta civile e politica: con comizi, conferenze stampa e lo sciopero della fame davanti al palazzo comunale. Ho invitato perfino una lettera al Presidente della Repubblica invocandolo a non firmare quello sciagurato provvedimento”.
Il sindaco è già autore di un libro-denuncia. Il titolo è Crimine di Stato. Storia di un delitto imperfetto. “Con lo scioglimento per mano dei prefetti si lascia intendere che, nella lotta alla mafia, la democrazia stessa è una sistema superato – scrive –, che le procedure costituzionali, le elezioni, le istituzioni rappresentative, il confronto politico, la partecipazione popolare, sono forme anacronistiche della vita politica”. Insomma, una prospettiva inquietante.