CATANIA – Nel 2012 la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza d’Appello del processo Dionisio che aveva portato alla sbarra i vertici storici di Cosa nostra catanese, tra cui il padrino ergastolano Nitto Santapaola. Quattro anni dopo arriva la nuova sentenza con la condanna per il ‘boss dei boss’ di Catania Benedetto Santapaola e di altri affiliati alla “famiglia”. La terza sezione penale della Corte d’Appello di Catania ha confermato la sentenza di primo grado (emessa nel 2009) infliggendo 3 mesi di isolamento a Nitto Santapaola, cinque anni e 6 mesi a Aldo Ercolano e Venerando Cristaldi, 8 anni e sei mesi a Michele Sciuto. Assoluzione per Santo Giammona. Rideterminata in 8 anni la pena per Mario Ercolano a cui è stata riconusciuta l’ipotesi di reato prevista dall’articolo 416 bis (associazione mafiosa). Assolti con la formula “per non aver commesso il fatto” Salvatore Ercolano ed Eugenio Galea (assolto dal reato di estorsione limitatamente al periodo da aprile a luglio 2004, ndr). La Corte ha dichiarato il “non doversi procedere” nei confronti di Vincenzo Basilotta perchè il reato si è estinto con l’avvenuta morte dell’imputato. Nel processo anche un esponente dei Mazzei, Santo Di Benedetto che dovrà scontare (secondo la sentenza appena emessa) una condanna di due anni e mezzo in continuazione della pena (già espiata) del processo scaturito dall’inchiesta “Traforo”.
L’inchiesta Dionisio scatta una fotografia della storia della mafia di qualche anno fa, ma dopo l’annullamento con rinvio della Cassazione l’apparato probatorio del processo si è rimpolpato di nuovi elementi e soprattutto di nuovi collaboratori di giustizia come Santo La Causa, Paolo Mirabile e Giuseppe Scollo. Sono stati rinsaldati i pilatri dell’indagine che vede il suo “nucleo” evolutivo nelle campagne calatine quando (in diretta) gli investigatori ascoltavano i summit tra Alfio Mirabile, capo all’epoca (siamo agli inizi del nuovo millennio) di Cosa nostra catanese, e di Ciccio La Rocca, rappresentante della famiglia di Caltagirone e storica “cerniera” con la cupola palermitana. L’operazione “Dionisio” su mafia e appalti, scattò il 7 luglio del 2005, sotto il coordinamento dei Pm Amedeo Bertone, Giuseppe Gennaro e Agata Santonocito. Ed è stata proprio quest’ultima nel ruolo di Pg a rappresentare l’accusa in questo quarto capitolo del processo d’appello. La requisitoria della Santonocito ha ripercosso i tratti salienti della delicata indagine del Ros.
Sono le intercettazioni tra il boss di Caltagirone Francesco La Rocca e i fratelli Alfio e Giuseppe Mirabile (per i pentiti dopo il 2000 sono stati i capi della famiglia Santapaola) a costituire il filo conduttore dell’intera inchiesta. Le cimici permettono di seguire in diretta le riunioni in campagna all’alba. E in queste conversazioni Mirabile afferma in modo inequivocabile che “ogni cosa era fatta per Nitto Santapaola”.
Nitto Santapaola per la pg Agata Santonocito ha continuato ad avere un ruolo “decisionale” all’interno dell’organizzazione nonostante la detenzione in regime di 41bis. Il carcere duro invece sarebbe stato – secondo il difensore Carmelo Calì – un muro invalicabile. L’avvocato catanese dopo la decisione della Cassazione aveva affermato: “Come si può sostenere che, fino al 2004, Benedetto Santapaola abbia diretto l’organizzazione denominata Cosa Nostra etnea, quando il mio assistito si trova in carcere dal 18 maggio 1993?”. Lo stesso boss, nel corso del dibattimento, ha ribadito la sua scelta di tagliare i rapporti con i propri figli maschi per “evitare” problemi con la giustizia. I pentiti però raccontano che le estorsioni più lucrose erano organizzate “in nome e per conto di Nitto”. Paolo Mirabile parla delle estorsioni dei supermercati Mar che erano destinati a Benedetto Santapaola e alla sua famiglia.
Ruolo chiave nell’organizzazione mafiosa in quel periodo avrebbero avuto secondo l’accusa anche Aldo e Mario Ercolano, figli di Sebastiano e nipoti di Salvatore. Accusa respinta in tutti i gradi di giudizio dalla difesa che ha parlato di una mole probatoria insufficiente. “Un cognome non può essere un marchio d’accusa”- hanno asserito i difensori. Ma per la pg Santonocito i “figli di Iano” erano inseriti all’interno di Cosa nostra catanese, e anzi avevano ambizioni di leadership. I due – secondo la tesi dell’accusa – avrebbro voluto comandare al posto di Alfio Mirabile.