PALERMO – Tutto alla luce del sole. Bruno Contrada convocato dalla Commissione regionale antimafia prova ad allontanare ogni sospetto su un suo possibile ruolo nel depistaggio delle indagini sulla strage via D’Amelio. E rilancia: se davvero, come sostengono in molti, avesse partecipato senza averne titolo alle indagini “dopo 24 ore mi sarei accorto che Vincenzo Scarantino era un cialtrone e raccontava cose non vere”.
L’ex capo della Mobile di Palermo, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa al termine di un processo che, tra le polemiche, la Corte di giustizia europea stabilì che non andava celebrato, si presenta dicendo: “Credo che a novant’anni un uomo non possa più mentire, qualora lo abbia fatto, né per stesso né per altri. Mi impegno a dire la verità come ho sempre fatto”.
Scarantino è il picciotto di borgata, il malacarne che nel corso di indagini e processi crollati è stato piazzato in maniera inverosimile al fianco dei boss stragisti. Un modo, così sostiene l’accusa nel processo ancora in corso a Caltanissetta, per salvare i veri colpevoli.
Contra legem fu certamente il lavoro dei servizi segreti chiamati a indagare sulla strage in cui furono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. I Servizi non hanno compiti di polizia giudiziaria. Contrada spiega che fu allertato dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, tramite il genero poliziotto, “mi dice che don Vincenzo, non disse il capo della polizia, desidera che prenda contatti con Tinebra per la strage che è accaduta”.
Contrada, però, respinge chissà quale ruolo da spione o 007 ,ha fatto tutto alla luce del sole, il suo era un ruolo esclusivamente informativo. Nessuna indagine, dunque. Prese informazioni su Scarantino che aveva solo qualche parentela mafiosa. Sapeva bene quali erano i suoi compiti e non aveva alcuna intenzione di intralciare o sovrapporsi alla polizia giudiziaria. Gli fu chiesto un contributo e Contrada lo diede, solo dopo essere stato autorizzato dalla linea di comando, perché era colpito dalla morte di Borsellino, con cui “avevo un ottimo rapporto professionale”, e degli agenti di polizia che definisce “miei figli”.
Se fosse dipeso da lui, che a 90 anni mostra una lucidità totale nel ricordare nomi e fatti, avrebbe smascherato subito le bugie di Scarantino. Perché non lo fece Arnaldo La Barbera, ex dirigente della squadra mobile di Palermo e capo del pool “Falcone e Borsellino” morto con il sospetto pesantissimo che sia stato lui l’anima nera del depistaggio?, si chiede il presidente della Commissione Claudio Fava.
“Alcuni cercano di fare carriera attribuendosi meriti che non gli spettano – dice Contrada -. Bisogna considerare anche questa componente, a meno che non si arrivi alla conclusione che ci sia stato uno scopo che porta a questo depistaggio”. Ed invece per Contrada fu frutto dell’impreparazione. Affidarono le indagini a degli incompetenti: “La Barbera sarà stato un ottimo poliziotto, ma ha fatto servizio sempre al Nord, è venuto a Palermo che manco sapeva dove sta di casa la mafia, ne sapeva meno di mia madre”.
A proposito di La Barbera: a Contrada non risulta che lavorasse per i servizi segreti, ma di sicuro riceveva “prebende, regalie” in denaro. Lui come altri, compresi prefetti e altri funzionari. A che titolo ricevesse i soldi resta un mistero, nonostante le domande insistenti di Fava.