“Papà, i folletti esistono, vero?”. Eravamo in macchina, di sera, tanti anni fa. Quei grandi occhi verdi mi mettevano in crisi, non ero preparato ad una risposta bella, rassicurante, convincente. Non sapevo, soprattutto, se fosse il momento giusto, il clima adatto, la condizione ideale per poter rompere l’incantesimo in quegli occhi verdi, grandi e brillanti, di mia figlia. Sette anni, era quella l’età del disincanto? A parte i saggi suggerimenti degli psicologi e degli esperti pedagoghi, io come sarei potuto uscire dall’imbarazzo di quella domanda netta, chiara, impertinente? “I … folletti?”, “Sì! Quelli che vivono nel giardino di casa dei nonni! Esistono, vero?”
Qual è l’età giusta per smettere di sognare e di credere nelle favole? È lecito soffocare i sogni, volare così basso da non allontanarsi dal suolo, desistere dall’inseguimento di miti gloriosi?
Erano già passati molti anni, per me, dall’ultima ricostruzione di un sogno. Era una caldissima serata di agosto, nel 1987. Piero ed io ci guardavamo increduli, seduti sul cemento della gradinata della Favorita. Eravamo in tanti, tantissimi; quel piccolo stadio che in quasi un secolo di vita poteva aver accolto le grida e gli entusiasmi, al massimo, di poche migliaia di persone, adesso ne ospitava circa cinquantamila; un numero spropositato. Ci guardavamo, Piero ed io, meravigliati e contenti come bambini. Allo stadio, ancora, come più di un anno prima.
L’anno prima si era registrata una delle peggiori date del mio disincanto. Otto settembre 1986; tra i primi titoli del TG1: la Palermo Calcio, società sportiva dai trascorsi più tormentati che gloriosi, sparisce. Fine, non c’è più, non esiste più, puff! Guardavo gli occhi di mio padre, poi di nuovo la tv, incredulo. Ci chiedevamo come fosse possibile, se non avessimo capito male, se non si fosse fatto un errore storico. Non era mai successo prima, non così. Persino gli sguardi dei miei fratelli e di mia madre, notoriamente immuni da qualsiasi lontano interesse per le questioni calcistiche, erano attoniti.
Non era neanche importante capire perché, come, cosa fosse successo. Qualunque fosse stato il motivo, certamente era successo qualcosa di enormemente brutto. Per la città fu un dramma. Forse nessuno aveva potuto immaginare quali conseguenze avrebbe provocato quell’uccisione. Ma forse chi decise allora per quella soluzione lapidaria non sapeva cosa stesse, in realtà, facendo. Perché quando qualunque impresa fallisce, finisce un progetto, si cancellano obiettivi, realizzazioni di successo, è vero; ma è compreso nel gioco. Qui no; chi crede che un Football Club obbedisca alle medesime dinamiche, si sbaglia di grosso; chi crede di poter applicare a dei colori societari, ad un vessillo, ad un affetto irrazionale e sconsiderato, le stesse regole di una ditta, non sa di che materia siano fatti i sogni. E la gente doveva ingoiare il comando di non sognare, così era stato deciso.
A quella tombale serata dello shock seguì un tempo incommensurabile, un’indeterminatezza vuota, un limbo. In città, nei bar, nei luoghi di incontro, negli spazi della vita ordinaria, le vecchie, interminabili questioni calcistiche, le diatribe sugli arbitri, le esaltazioni delle gesta atletiche, le azioni concitate che portavano ai gol, erano state soppiantate da vuoti discorsi su fantasmi.
C’era un anziano signore, in città, a capo degli industriali locali, di nome Salvino. È bene ricordare che il nome completo è Salvatore e che un nome, a volte, risponde ad un’azione da compiere, ad un mandato; “in nomen, omen”. E un “salvatore”, salva. Salvino Lagumina non seguiva il calcio, non l’aveva mai fatto. Ma in un pomeriggio da tavolino al bar, sorseggiando un limoncello, si accorse che la gente che lo circondava, i frequentatori di bar, marciapiedi ed autobus, i ragazzi che giocavano a pallone nei posteggi con due zaini a fare da porta, avevano tutti bisogno di sognare. E senza i colori di una propria bandiera, rischiavano di non riuscirci più. Allora chiese con una certa intraprendenza agli industriali, suoi colleghi, di aiutarlo in un’impresa coraggiosa. Tutti quanti formarono una “cordata”, sostenuti persino dal Sindaco. E Salvino salvò tutti dalla minaccia dei sogni cancellati.
Adesso eravamo lì, sui gradoni di cemento della gradinata, in una calda sera di agosto. La “cordata” aveva funzionato. Sembrava impossibile, si gridava al miracolo. Si tornava a saltellare sul posto e ad intonare insieme inni e cori dimenticati. Quando la voce dell’altoparlante cominciò a scandire i nomi di sconosciuti ragazzi provenienti da polverosi campetti di provincia, questi uscivano ad uno ad uno osannati con boati che neanche Gullit, Van Basten, o Zico, o Platini.
Di fronte, in quell’amichevole della rinascita, c’erano gli atleticissimi giovanotti dell’Atletico Mineiro, che molti non sapevano se argentini, o brasiliani, o uruguagi, ma suonava così bene, così sudamericano, così mundial! Cosa importa se si prendono due gol, quando vedi che la palla gira bene e le maglie di undici su ventidue sono incredibili, insperate maglie rosanero? Bravi, quei ragazzi, comunque; a correre in campo c’erano loro, ma potevamo esserci benissimo noi. Anzi, c’eravamo noi! Era già metà del secondo tempo, quando un pallonetto finisce in area, sui piedi di Santino Nuccio, che veloce come una lepre insacca, generando un evento fisico dagli effetti di un fungo atomico. Piangevamo tutti. Sì, adesso sì: si era ricostruito un sogno.
E troppo presto una città che di solito non dimentica chi l’ha davvero amata, ha liquidato il ricordo di Salvino Lagumina, anziano sorseggiatore di limoncello e attento ascoltatore del cuore di un’intera città. Sono passati molti anni; in macchina mia figlia ed io, una bambina di sette anni ed io, un aspirante bambino ricostruttore di sogni. Fino a quando riuscirà a ricostruire, fino a quando glielo lasceranno ancora fare. No, tesoro, non esistono più i folletti, quando si finisce di essere bambini. Ma possono tornare.
Tu non smettere mai di sognare.