“Una bellissima arma, un’arma da intenditori”. Così Maurizio Ortolan, dirigente del Servizio centrale operativo di Roma, ha descritto la “Glock” ritrovata all’interno del borsone che Domenico Raccuglia, boss di Altofonte, gettò dal balcone al momento dell’arresto, lo scorso 15 novembre 2009. Con sé aveva anche un mitra cinese. Armi che in Italia non si trovano se non attraverso traffici illegali internazionali. E ancora, una calibro 38 e una cinquantina di proiettili, ritrovati all’interno dell’appartamento in cui il boss si era nascosto. “In genere un latitante non si muove con un arsenale simile”, ha spiegato Ortolan: o si resta disarmati, oppure si utilizza una sola arma di difesa. Ma non era solo la propria incolumità al centro dei pensieri di Raccuglia. Su uno dei quaranta pizzini ritrovati nel covo, si fa riferimento a un detonatore, delle micce e una vettura. Elementi che inducono a pensare a un attentato.
Maurizio Ortolan, rispondendo alle domande del sostituto procuratore Francesco Del Bene, ha ricostruito nell’abito del processo “Carthago”, l’iter delle indagini condotte dagli uomini dello Sco di Roma e dalla squadra mobile di Palermo che hanno portato alla cattura del boss di Altofonte. Gli investigatori sono partiti proprio dal comune del Palermitano per individuare possibili fiancheggiatori dell’allora latitante. “Non potevamo prescindere dagli interessi economici sul territorio” ha spiegato Ortolan. Così gli inquirenti hanno trovato in Salvatore Caturi, imprenditore edile, uno dei canali di comunicazione utilizzati dal boss. E tra gli interlocutori di Caturi, ce n’è uno in particolare. Dalle intercettazioni ambientali è stato possibile verificare che gli incontri fissati con Giuseppe Campanella non si verificavano quasi mai per lo scopo prefissato. O ancora, “in corrispondenza di questi incontri – continua Ortolan – Campanella si recava spesso in luoghi dove apparentemente non incontrava nessuno”.
Le indagini, poi, vivono un momento di stallo e sono rimesse in moto dal pentito Gaspare Pulizzi. Secondo il collaboratore di giustizia è Camporeale, nel Trapanese, la roccaforte del “veterinario”. Girolamo Riotta, infine, è il terzo anello per giunge a Raccuglia. E’ lui il punto di riferimento di Campanella a Camporeale. Nell’estate 2009 gli investigatori delineano le anomalie dei rapporti intrattenuti tra Riotta e Marco Lipari di Calatafimi: ancora nessun accordo diretto al telefono.
A Calatafimi abita anche Benedetto Cavanusa, intercettato dalle forze dell’ordine, che possiede una masseria abitata nel periodo estivo e un’appartamento, situato all’ultimo piano di uno stabile nel centro del paese. Al termine dell’estate la famiglia Cavanusa, però, non abbandona la masseria per trasferirsi nell’appartamento di via Cabasini. I Cavanusa entrano ed escono di continuo, portando con sé alcuni sacchi neri. “Una sera abbiamo visto un lampo di luce attraverso le tende dell’abitazione e abbiamo capito che si trattava di un televisore acceso”. Quando il giorno dopo, domenica 15 novembre, intorno alle 17, la luce appare di nuovo da quella finestra, alle forze dell’ordine non resta che fare irruzione nello stabile. Il boss tenta di uscire dal balcone, ma fa solo in tempo a gettare una borsa.
Oltre alle armi, lo zaino conteneva 110 mila euro in contanti che, sommati a quelli ritrovati all’interno dell’abitazione, arrivano a quota 130mila. Il sostituto Francesco del Bene ha chiesto ai giudici di sentire il pentito Antonino Giuffrè su uno dei pizzini ritrovati nel covo dove si nascondeva, in cui appare il nome di Domico Raccuglia.