Ida, figlia discreta e sideralmente lontana dai riflettori, di Totò Cuffaro, è stata proclamata magistrato, dopo avere vinto il concorso. E ci viene da dire subito che farà bene il suo lavoro. Suo padre non era alla cerimonia, ma, stando alla cronaca disponibile, ha dichiarato: “Sono felice per mia figlia, lei sconfigge la mia sconfitta”. Frase che ha un valore intimo e personale per chi, dopo una sentenza definitiva per mafia, ha conosciuto la relativa punizione. Ed è un sentimento da papà, insindacabile, puro, prorompente. Eppure, quella stessa frase ci riguarda. La figlia di un colpevole che lavora per la giustizia di tutti è una vittoria per tutti. E per diversi motivi.
Intanto, perché si verifica come un passaggio di luogo, da una zona macchiata da una condanna a un paesaggio nobile. C’è davvero un riscatto generazionale. E non soltanto perché i figli e le figlie, invariabilmente, si auspicano migliori dei padri. Ma perché la figlia di un colpevole che diventa giudice rimette i conti a posto con la società, in forma oggettiva di risarcimento. E li pareggia, quei conti, più che con l’esecuzione di una sentenza, nella scelta di una professione che non rinnega l’amore filiale, che non travolge legittime idee sul punto, e che, tuttavia, cambia la storia. E la cambia per sempre.
E poi c’è da ricordare quello che scriveva Sciascia a proposito dei magistrati, in un certo momento storico: “Un rimedio paradossale – il maestro scriveva della malagiustizia del caso Tortora – quanto si vuole sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove di esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti e preferibilmente in carceri famigerate, come l’Ucciardone e Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello, ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Una acuta provocazione.
Ida Cuffaro ha subito, da innocente, gli effetti di un errore paterno che non aveva commesso: le è mancato Totò, ristretto a Rebibbia, per lunghi anni. Ha provato la sofferenza del distacco, ha conosciuto il carcere, per interposto amore, ha attraversato il deserto della desolazione. Dunque, sa. Ecco perché la sua competenza, il rigore noto a chi la conosce, e la sua speciale sensibilità la rendono particolarmente adatta a un ruolo tanto difficile. (Roberto Puglisi)