"Maradona, Dalla Chiesa e Palermo... Ma non chiamatemi mai sceriffo"

“Maradona, Dalla Chiesa e Palermo… Ma non chiamatemi mai sceriffo”

Parla il nuovo capo della polizia municipale, Angelo Colucciello

“Ci siamo innamorati di Palermo e abbiamo scelto di restare qui. Ma questa città deve smetterla di abituarsi alla rassegnazione…”.

Parlare con il colonnello Angelo Colucciello, napoletano, 54 anni, carabiniere, nuovo comandante della polizia municipale, significa imbattersi in una trama ricorrente: tanti palermitani adottivi amano Palermo molto più di alcuni palermitani nativi. Arrivano, soffrendo, forse, per l’impatto, ma poi scelgono quello spazio concreto e ideale tra Mondello e la stazione. E non lo tradiscono più. Ecco una chiacchierata densa di passione, di energia positiva e di voglia di fare, distillata tra domande e risposte. Un piano di volo che insegue la suggestione di strade di speranza non sempre battute, per trasformarle in realtà.

Comandante, cominciamo dal suo curriculum: lei è un alto ufficiale dell’Arma, è stato alla Dia e adesso si trova al vertice al corpo della polizia municipale. Cosa cambia nel suo approccio?
“Il mio impegno di adesso mi mette ancora più a contatto con le persone e con le esigenze vere della città. Si entra ancora di più in certi vicoli che, magari, prima non erano perfettamente visibili. Si vive nel cuore di tutto. Io e la mia famiglia abbiamo deciso di vivere qui, la nostra non è una scelta estemporanea”.

Il suo obiettivo?
“Lo ripeto sempre nei briefing prima dei servizi: dobbiamo cancellare la parola rassegnazione dalla testa dei palermitani. Qualche volta non si cambia perché c’è l’abitudine di sopportare ogni cosa. Siamo, infatti, abituati a vivere con le strade soffocate dalle bancarelle, con le doppie file. Palermo ha una faccia diversa. Può essere molto brutta, ma è, nella sua sostanza, bellissima”.

Lei è nato a Napoli, dove?
“Nella zona dell’Arenaccia, poco distante dalla stazione, con una struttura monumentale e degradata, l’albergo dei poveri, che era la residenza di Carlo III. Sono cresciuto in un quartiere popolare, con papà appuntato dell’Arma, e mamma casalinga”.

Ha visto Maradona?
“Certamente, ricordo la festa nel giorno dello scudetto. Papà mi accompagnava sempre alla Nunziatella, l’accademia militare dove mi formavo. Non si poteva passare e fui costretto ad andare a piedi. Porto nel cuore la gioia di quello spettacolo indimenticabile”.

Le storie della sua casa originaria sembrano non dissimili da quelle della sua casa adottiva.
“Sì, le due città hanno molto in comune. Nelle vicende belle, nella passione, come nelle dinamiche criminali. Con una differenza”.

Quale?
“In qualche caso il palermitano medio lascia fare chi si impone con la prepotenza. Qui c’è un patrimonio fantastico. Ci sono i monumenti, c’è il mare… Io sono solo il comandante della polizia municipale che, nel suo perimetro, vuole dare una mano”.

Cosa la fa più arrabbiare?
“Quando qualcuno prova a chiamarmi ‘sceriffo’. Ecco, è una qualifica che non accetto e nessuno deve permettersi. Lavoriamo per garantire un servizio. E, no, io non sono uno sceriffo”.

Il suo amore per la città di adozione, la forza con cui difende le sue idee, il suo riferirsi al cambiamento necessario – nella differenza con una storia che ha avuto un epilogo tragico – ricordano la risolutezza di un altro carabiniere: il generale Dalla Chiesa. Un’altra possibile suggestione. La trova ingombrante?
“Niente affatto, ne sono onorato. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è un mito per l’Arma e per tutti gli italiani perbene. Un esempio per chi pensa che si può cambiare. Io spero di potermi ispirare a lui. Dalla Chiesa ha affrontato la mafia quando certi equilibri criminali erano consolidati, mentre forse lo Stato non era del tutto maturo. Eppure, ha avuto egualmente il coraggio di andare fino in fondo. Sono cresciuto, come le dicevo, con un papà appuntato, a Napoli, negli anni Sessanta e Settanta, anni molto difficili. Mi definisco un carabiniere nel sangue”.

Quali sono, secondo lei, le emergenze più urgenti di Palermo?
“Le strutture investigative e l’autorità giudiziaria sono in grado di fare fronte sul versante criminalità. Sono state messe un po’ da parte, casomai, le criticità sociali che vive il territorio, il disagio sociale. Gli ultimi ragazzi morti non sono stati uccisi dalla mafia, hanno perso la vita per la classica taliata storta, la rissa… e questo fa paura a chi, come me, è genitore. E, le assicuro, io non mi posso sentire e posto con la coscienza perché proteggo le mie figlie. Avverto la responsabilità collettiva che discende dal mio ruolo”.

La cosiddetta ‘malamovida’?
“Un’altra sintesi che non mi piace. Chiunque ha il diritto di andare a cena, di divertirsi. Dobbiamo vivere, non sopravvivere, evitando i comportamenti sbagliati. Ho avuto una riunione con gli esercenti di via La Lumia e gli ho detto: comprendo le vostre difficoltà, ma non dovete passare dalla parte del torto. Noi non colpiamo i locali in quanto tali, però dobbiamo fare in modo che le regole siano rispettate”.

Torniamo all’incipit, perché, in definitiva, avete scelto Palermo, come famiglia?
“Siamo arrivati nel 2006, dopo un mese io e mia moglie volevamo scappare. La città – lo dico e lo sottolineo: con tutte le mie limitazioni – mi appariva come coperta da un velo, prigioniera di una cappa che non si sollevava”.

Poi, che è successo?
“Le nostre figlie si sono trovate benissimo, studiando in una scuola eccellente. Abbiamo conosciuto meglio le grandi potenzialità, l’affetto dei palermitani, e abbiamo deciso di restare, comprando casa. Infine, ho accettato la proposta del Comune”.

Pensa che, domani, potrebbe pentirsene, comandante?
“Assolutamente no”.


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