Dallo Stretto alle strette: c'era due volte Beppe Grillo

Dallo Stretto alle strette: c’era due volte Beppe Grillo

Un video che ha fatto discutere che è anche il riflesso di una sconfitta.
IL VIALE DEL TRAMONTO
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3 min di lettura

Quale che sia la variabilità dei giudizi sul noto video di Beppe Grillo riguardo alla vicenda di suo figlio e di un presunto (bene sempre ricordarlo) stupro, la visione delle immagini copia nello specchio dei sentimenti le crepe di un uomo alle strette. Già in difficoltà su più fronti, per il suo Movimento alla deriva, per la sua immagine di padre nobile: è come se il frangente non semplice da padre e basta fosse la goccia che, aggiunta al mare, provoca lo tsunami.

E si può provare – oltre le necessarie ragioni indignate sull’inopportunità di un messaggio e poi del rispetto e della solidarietà che si devono soprattutto a chi in quella storia ha denunciato di essere vittima di violenza – perfino un guizzo di privata pietà per un uomo che è appunto anche un padre. La paternità compone il crocevia di stati emotivi estremi, sensi di colpa niente affatto esclusi.

Ma l’idea pubblica che se ne ricava è quella di un uomo, incidentalmente padre, che grida nella sconfitta, mentre prima urlava nella vittoria. Perché, nel frattempo, tutto è cambiato, a cominciare dalla prospettiva.

Primo flashback: Beppe Grillo comico al limitare della poesia, perché circoscrivere il suo talento alla semplice e complicatissima comicità sarebbe riduttivo, almeno nella moneta corrente delle interpretazioni per cui il comico è ‘uno che fa ridere’, quando è invece uno che ‘fa piangere’ lacrime di verità, nascoste in un luogo segreto, arrivandoci con lo stratagemma della battuta. E’ comico Paolo Villaggio quando con il ragioniere Ugo Fantozzi ti costringe a sghignazzare mentre sanguini di dispiacere. Era comico Beppe Grillo quando dal palco di Sanremo fustigava una classe dirigente o quando raccontava, nella incompresa rarefazione di ‘Cercasi Gesù’, l’impossibilità per un’anima candida di vivere in un contesto sporco.

E poi venne il leader che inventò il suo M5S in un capolavoro di marketing opposto e identico al ‘miracolo’ di Silvio Berlusconi. E tornò il culto che riguardò il corpo non scultoreo e tuttavia capace di mirabilie come la famosa traversata di Beppe, ribattezzato Peppino, dello Stretto di Messina, alla volta della Sicilia. Fu la metafora di un prodigio reclamizzato: se io, alla mia età, sono riuscito ad attraversare una simile e ostile lingua di mare per abbracciarvi, come potete pensare che non riuscirò a cambiarvi? E fu l’inizio.

Ma siccome il simbolo e il prodotto coincidono, nei corpi e nello spirito, forse non è casuale che, dopo lo Stretto, le strette che serrano il fondatore rimandino all’assonanza finale della dissoluzione di un’esperienza sociale, personale e collettiva in cui si riflette il tramonto della sua creatura, ormai troppo cambiata e oggettivamente irriducibile rispetto ai proclami. Il grido che assume la posa eroica nella vittoria diventa l’eco rauco di una catastrofe nell’ora della sconfitta.

E ci rammenta che solo tale fu, in massima parte, l’epopea dei Cinque Stelle: un urlo munchiano contro qualcosa o qualcuno, non la parola che costruisce. In quel video a più strati si condensa, forse, l’ultimo racconto, suo malgrado, del rimpianto dei padri come dei figli, in una curiosa evoluzione dal giustizialismo con venature estreme al garantismo. Non più comico e mai più condottiero trionfante, ma padre che guarda se stesso in uno specchio rotto. C’era due volte Beppe Grillo.


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