(rp) La morte di Davide Sorti è il paradigma di tutto ciò che ci terrorizza della morte e che ci spinge ad alzare le spalle, per tentare di dimenticare la nostra stessa paura. Trentasette anni, l’età in cui gli altri ci considerano uomini e noi cominciamo a pensarci poco più che bambini. Il tempo di un distacco iniquo – se mai ne possa esistere uno equo – dell’andarsene come la foglia strappata dall’albero, la foglia che voleva respirare e ha dovuto, suo malgrado, fare i conti con l’ineluttabilità delle dita che l’hanno tirata via.
Ci sono luoghi – come le rianimazioni degli ospedali – in cui la fine è nota, attesa. E alla fine, la fine comincia a somigliare a una specie di terribile soluzione, dopo mesi silenziosi di disfacimento e indisponibilità del proprio corpo. Ed è propro vero che nessuno ha potestà di scelta in merito. Davide se n’è andato nel battito quotidiano del suo esistere. Un colpo al petto, il chiedersi smarrito: che cosa sta succedendo?, il terrore che si insinua e irrompe, infrangendo la sicurezza, il tentativo di riparare l’irreparabile, l’accostarsi della macchina, il culmine dell’infarto, la misericordiosa perdita di conoscenza. E un padre che arriva come un forsennato da casa, perché ha saputo la notizia, e rimane di ghiaccio davanti al corpo del figlio.
Siamo cronisti. Siamo abituati a maneggiare la morte per mestiere. A volte lo facciamo con delicatezza, a volte siamo imperdonabili e sbrigativi. Stavolta, abbiamo conoscenza affettuosa e diretta delle persone che hanno subito questa tragedia, dei luoghi in cui vivono, degli altri – parenti e amici – che tentano di stare accanto in un’opera difficile di consolazione. Forse così riusciremo a raccontare meglio il senso di perdita che si prova, perché ci colpisce. E di tutti i racconti che si potrebbero scrivere circa la morte iniqua di Davide Sorti, ci interessa soprattutto un particolare. Ci interessa il cuore di un padre che ripete: “Perché Dio non ha preso me al suo posto?”. E’ la domanda di tutti i genitori quando muore un figlio. Quello che si può fare, chissà se si può fare, è continuare a vivere e ad amare. Senza cercare la risposta.