Nell’anniversario della sua morte violenta, chiediamo perdono a don Pino Puglisi. Abbiamo bisogno di essere perdonati per avere trasformato il suo ammaestramento di uomo vigoroso nell’immaginetta di un santino inutile. Tutti i peccati che si commettono contro la memoria sono stati effettivamente commessi.
Chiediamo perdono a don Pino per il peccato della superbia e della divisione. Non abbiamo accolto il suo messaggio, preferendo la solita diatriba sulle spoglie. Accade per le vittime della mafia, è già accaduto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di chi è don Pino? Chi erano i suoi amici più sinceri? Tutte le distinzioni varie e variamente declinate hanno avuto questo fondamento: stabilire chi fossero le persone più vicine all’operato del prete di Brancaccio, per potere gridare in faccia agli esclusi: vieni anche tu sul carro? No tu no. La nostra è una terra di reduci che agiscono nella luce riflessa degli eroici trapassati. I sopravvissuti rivendicano un’eredità in esclusiva. Non la condividono. Non la mettono a disposizione. Non spezzano con gli altri il pane della solidarietà.
Nascono sentimenti terribili tra coloro che perseguono lo stesso obiettivo, talvolta rimescolando le carte. “Gli amici” vogliono definirsi come gli unici legittimi membri di una setta che persegue le orme del martire, ma non prevede contaminazioni tra adepti ed estranei. Da qui le battaglie fratricide sulle spoglie.
Chiediamo perdono a don Pino per il peccato dell’antimafia. Che è una virtù in un’isola di mafia, fino a quando non diventa esibizione, ornamento, retorica, noncurante della sostanza, schiacciata sulla forma. Il santo di Palermo ha seguito, suo malgrado, il destino dei predecessori caduti. E’ stato stilizzato e congelato nel marmo di una espressione immutabile. Il famoso sorriso di padre Puglisi. Pochi si sono chiesti fino in fondo cosa ci fosse dietro quel sorriso, quali fossero le opere e i giorni a Brancaccio. Nessuno si domanda nulla intorno a un quartiere colmo di dannazione e speranza, nella sua storia presente. I luoghi sono come cristallizzati nel vapore antimafioso che ne solidifica gli scatti. Sono quinte di una ricostruzione epica che nulla ci comunica – nessuna notizia mai – sullo stato dell’arte oggi.
C’è un vero approfondimento autocritico delle parole di padre Puglisi? No, perché non c’è stato per Giovanni Falcone, né per Paolo Borsellino che capeggiano la legione dei martiri dell’antimafia, ridotti a statue. Se solo avessimo preso il cuore, gettando via il monumento, saremmo cambiati davvero. La pelle di una statua è fredda. Non sopportiamo le anime fiammeggianti. Le sostituiamo con una galleria di facce immobili da studiare nel museo, da ripetere nell’elenco prescritto.
L’ultimo peccato è l’atto che ha fatto di un uomo un beato, portandolo via dalla storia e inserendolo nei cieli, nella dimensione irraggiungibile con cui può esserci intercessione di preghiera, dal basso verso l’alto, non dialogo aperto. A prescindere dalle intenzioni e dalla coerenza della Chiesa che ha seguito il suo percorso, il risultato è evidente. Si somma al resto. Don Pino dimora in un sepolcro lontano, non abita più a Palermo, né a Brancaccio. E’ veramente morto.
Quando andremo da lui per supplicare che ci guarisca dalla malattia, dal ginocchio che non funziona più e che interceda per il lavoro dei figli, dovremo ricordarci di sussurrare una parola in più. Perdono