PALERMO – C’è una pioggia che pare una maledizione. Cade sulle fiaccole accese di Palermo. Qualche ora prima delle fatali 17.58 – nella ricorrenza del ventunesimo anniversario della strage di Capaci – il comitato ventitré maggio ha organizzato la sua e la nostra notte della memoria. Il ricordo è chiamato alle sue pacifiche armi, convocato ai piedi del palazzo di giustizia. E nessuno qui – sotto la pioggia che rassomiglia a un uragano – dimentica la sorella maggiore della memoria: l’inospitale verità. Tanto più invisa quanto più vicina e normale. La odiano coloro che non la cercano, coloro che non vogliono che si trovi, perché hanno qualcosa da nascondere o per un contrapposto terrore: quale fantasma inseguirebbero se le cose si mostrassero così come sono? Il senso della storia si rintraccia, partendo dall’inizio.
Giovanni Falcone era un giudice discreto e spigoloso, che nascondeva la sua calda e ironica umanità sotto una corteccia ruvida. Ai suoi contemporanei non piaceva. Troppo libero, con moglie, senza figli e dunque estraneo alla retorica familistica che ammira gli uomini solo se sono padri. Era una persona col vizio dell’indipendenza, Giovanni Falcone, come viene rammentato sotto i portici che proteggono la gente inumidita di gocce e pensieri. Infatti, risultava scomodo praticamente a tutti. Non lo amavano alcuni dei suoi colleghi che lo braccarono sui giornali e nei verbali del Csm. Non lo amava la sinistra radicale che, in quegli anni, prese uno dei suoi abbagli più formidabili, considerandolo un venduto, un collaterale del potere. Non lo amava la stampa chic. ‘Repubblica’ impaginò un lungo articolo per tacciare il magistrato assassinato a Capaci di manie di protagonismo, dopo la pubblicazione di un suo libro. E non lo amavano le faine della carta stampata. Non lo amava chi scrisse che “con Falcone sarebbe stato necessario tenere a portata di mano il passaporto”. Questo per ricordare davvero, senza ingenuità, senza mediazioni.
La notte della memoria comincia con i bambini della fondazione “Città invisibile”. Gli tocca l’apertura musicale. L’inno di Mameli, il fasto di Elgar (‘Pomp and circumstance’), la lucentezza della ‘grande porta di Kiev’ nei ‘Quadri di un’esposizione’ di Mussorgski-Ravel. E la serata appare liscia come una smisurata porta di pioggia, da attraversare, per andare oltre. Lo scrisse Pietro Grasso, presidente del Senato e allora giudice, in un libro di qualche anno fa. Il metodo Falcone insegnava che era controproducente dare testate a un muro per abbatterlo. Meglio girarci intorno. I piccoli orchestrali suonano e cantano. Lo spettacolo più bello è nelle facce, nei muscoli infantili che si tendono, nella concentrazione ostinata sullo spartito. E’ un messaggio che scava.
Sembrava la tregenda dei bambini. Tempeste. Uragani. Navi della legalità ferme in porto. C’era un pifferaio magico, con la sua grotta maligna, pronto a privarci dell’invasione colorata di ogni 23 maggio? Il rischio si è dissolto. Le navi sono partite. Arriveranno domani. I Mozart in sedicesimo sotto i portici ci danno dentro. Li guardi, serissimi, mentre giocano il gioco della musica. E pensi, forse per un riflesso condizionato, che dovrai amarli per sempre.
Le parole, sì. Appassionate, discutibili, talune irricevibili. Lo sboccato affondo contro il Capo dello Stato, nella megafonata finale piena di testimonianze. I magistrati che parlano di responsabilità. E sappiamo che ci sono diverse visioni: chi li considera sovvertitori, chi eroi. Sicché ogni discorso va a finire nel suo contenitore ideologico, prima ancora che sia pronunciato. Leonardo Agueci, firma di inchieste scottanti: “Negli anni delle stragi accanto ai magistrati c’erano altri che a parole stavano con noi, ma in realtà agivano in tutt’altra direzione. E’ importante che lo Stato possa diventare credibile davanti ai cittadini e davanti agli occhi di chi ha vissuto sulle proprie carni la violenza mafiosa”. Il gup Piergiorgio Morosini: “Ci sono ancora tanti tasselli che mancano. Senza chiarezza su quella stagione, forse la nostra democrazia è incompiuta”. Le parole del signor Agostino, con la sua barba bianca in cerca di forbici che la sollevino dal peso di un figlio morto ammazzato. La moglie del valoroso Beppe Alfano. Parole, appunto. Forti, giuste, stonate, eccessive. Sia come vi pare.
E la fiaccolata nonostante la grandine. E lo striscione per Agnese Borsellino. E la luce delle torce che compare puntualmente, quando Palermo ricorda, per poi rendersi invisibile. Non a tutti, ma a troppi.