Nel paese ove neanche la posta arriva da nessuna parte se non è raccomandata, e Gianni Letta ebbe a dire a Napolitano “tranquillo, è mio nipote” parlando di un passato Premier, la definizione ufficiale di raccomandazione come quella pratica largamente diffusa di segnalare qualcuno con il chiaro intento di porlo in una situazione di vantaggio rispetto ad altri in selezioni, concorsi, etc., a tutto danno della meritocrazia, appare una spudorata menzogna: la raccomandazione altro non è che una sana e paritaria azione volta a garantire la possibilità di affermazione a tutti i fortunati con agganci influenti, che per questa ragione sono oggetto di infondate maldicenze perché, si sa, l’invidia è brutta.
Tale pratica, va ricordato, è di uso quotidiano. Vi ricorriamo in ogni momento della giornata, nelle varie stagioni della nostra vita, al lavoro e nel tempo libero. Al fenomeno sono stati dedicati numerosi saggi. Da parte nostra proviamo ad analizzarne, nell’attuale scenario siciliano, forme, attori e risultati.
Intanto, cominciamo a distinguere la raccomandazione dalla semplice segnalazione, ovvero dalla ben più temibile pressione. Un politico, ad esempio, per definizione non raccomanda né pressa. Segnala in risposta a segnalazione orale o scritta, mai telefonica. O risponde a queste ultime, affidandole al buon cuore di Gesù, con lettere pre-confezionate di ringraziamento per aver ottenuto informazioni preziose su una certa persona, o su una certa situazione, informazioni e mittente che nello spazio di un secondo lo scrivano collaboratore archivierà per la prossima campagna elettorale.
Il 31 % dei giovani trova impiego grazie alla raccomandazione; tradotto in linguaggio tecnico, si fa ricorso alla raccomandazione a spinta (quando non c’è competizione) o alla raccomandazione a scavalco (quando si compete per l’accesso a un numero limitato di posti). E qui si testa il potere del politico: la raccomandazione a spinta, in caso di successo, tutto sommato vale poco. Il vero politico di potere si misura e si autentica nel buon esito della raccomandazione a scavalco, tanto più potente quanto più il raccomandato sia privo di titoli e, di contro, gli altri concorrenti siano maggiormente preparati.
Un’antropologa americana (D.L. Zinn) annotava come la raccomandazione esordisca già con la nascita: i futuri genitori si appellano a parenti e conoscenti per ottenere la stanza singola, per partorire con un certo medico, per scegliere la tipologia di parto. Ancora raccomandazioni alla fine dell’esistenza terrena: un funerale nella chiesa del centro, con più corone a minor prezzo, il loculo al cimitero.
Raccomandati, come si vede, si nasce; oltre ai figli di papà, non dimentichiamo le figlie di papi (non ci stiamo riferendo a Lucrezia Borgia). Più spesso, ci si diventa, specie se si ha la sindrome della schiena flessibile, che consente diverse acrobatiche posizioni. Il raccomandato nidifica in modo stanziale nelle pubbliche amministrazioni ove brilla per incompetenza. In particolare, nelle Università, arriva a conseguire chiara fama di ignoranza per provocare (e in modo efficiente, a dispetto delle critiche) il maggior danno al maggior numero di giovani possibile, sicché ai medesimi non resti altro che seguirne l’esempio allenandosi alle flessioni più che alla ricerca.
Il raccomandatore, dal suo canto, è la figura carismatica che, usando il proprio potere o le proprie conoscenze, fa ottenere ad alcuni individui (solo casualmente figli, nipoti o amanti), posti che sarebbero spettati ad altri.
E’ chiaro che le motivazioni sono, per carità, solo affettive: il raccomandatore ha un grande cuore! Non ha mai interessi personali, di nessun genere. Agisce per amicizia, come don Vito Corleone. Quando il raccomandatore è troppo richiesto, vedi Dio, a cui tutti si rivolgono per grazie e favori, la celebrità può andare a scapito del risultato: “e poi dicono che avere un padre influente aiuta!” ebbe a dire Gesù sulla Croce. Lo stesso non poté dire la figlia di un boss che, come si racconta in un articolo apparso sul Corriere della Sera, è stata raccomandata ad un assessore lombardo e poi assunta.
Al di là dello scottante terreno del lavoro, c’è bisogno della raccomandazione per la scuola, i posti a teatro, le file da saltare, i passaporti, i posti auto, un tavolo in bella posizione al ristorante, il pesce più fresco del mercato. E avanti con un elenco lunghissimo di eventi minuscoli o sostanziosi nei quali la differenza la realizzano il pacchetto di conoscenze da utilizzare e il minor grado possibile di separazione dal potente di turno.
Quel che ormai non stupisce più nessuno è che per molti la raccomandazione sia un sistema quotidiano con una sua efficienza. E quando manca viene sostituita da prassi illegali: si pensi al posteggiatore abusivo, cardine di un minimo di ordine nel traffico palermitano. A ben vedere, ognuno di noi ha metabolizzato una filosofia della raccomandazione, ne ha fatto una sorta di stile di vita “pret a porter”. La raccomandazione serve a porci un gradino al di sopra degli altri. E velocemente si passa all’autolegittimazione: ho costruito con sudore e dedizione una rete di amicizie, ora ne attendo un ritorno; e voglio anche qualcosa di più, la voglio subito, e non mi rassegno, in nessun senso, ad aspettare il mio turno, persino se la raccomandazione che chiedo, e ottengo, si traduce in una pressione -terza tipologia- al limite del reato penale.
Va da sé che in pubblico denunzierò con veemenza la raccomandazione quale piaga sociale che danneggia il sistema socio-economico, incentiva inefficienza e sprechi, diffonde un’atmosfera di sfiducia e scarsa propensione al lavoro ed allo studio. Ovviamente, quando non è con i minuti fatti quotidiani che ci si confronta, ma ci si scontra col muro sul quale si infrangono legittime aspettative ed anni di impegno, nascono momenti di ribellione. Se la raccomandazione a spinta non lede, almeno in modo palese, alcun altro, la raccomandazione a scavalco danneggia direttamente i valutandi non raccomandati. Che rimuoveranno ogni filosofia “buonista” e a giusto titolo protesteranno e denunzieranno. O, ben più frequentemente, nella certezza di cumulare danni ulteriori a quello già patito, soffriranno in silenzio una profonda ingiustizia. Il politico di razza in questo caso godrà di una doppia rendita di posizione: si vanterà con chi ha usufruito della raccomandazione e, al tempo stesso, prometterà giustizia e prossimo riconoscimento a chi ne è stato vittima, colpevole, gli verrà con affetto imputato, di non essersi precedentemente piegato alla logica del sistema. E se ancora non si piega, peggio per lui: vorrà dire che è cretino. Onesto, ma cretino.
Ben sapendo, come disse un noto statista con un nome altisonante, Otto von Bismarck, che la libertà è un lusso che non tutti si possono permettere, quanto meno -questa una nostra postilla – nei tempi lunghi.