PALERMO – Reticente ed elusivo lui. Prive di un carattere di novità e generiche le sue dichiarazioni. Ce n’è abbastanza, secondo il giudice per l’udienza preliminare Giuseppina Cipolla, per lasciare in carcere Vito Galatolo e respingere la sua richiesta di andare agli arresti domiciliari. Il gup ha riletto le dichiarazioni del boss dell’Acquasanta, oggi collaboratore di giustizia, concludendo che non si raggiunge un “ampio margine di certezza che il Galatolo abbia reciso ogni collegamento con la criminalità organizzata così da non potersi escludere che lo stesso sia stato elusivo”.
Il 13 aprile scorso, nell’ambito del processo denominato Apocalisse, Galatolo è stato condannato a sei anni e otto mesi di reclusione. Gli hanno concesso le attenuanti generiche, ma non quella specifica per il collaboratori di giustizia. Non basta pentirsi per ottenerla, serve “una concreta e fattiva attività di collaborazione”. Così come lo status di collaboratore e protetto di Stato, riconosciuto a Galatolo, da solo non basta per guadagnarsi una misura cautelare meno afflittiva.
Il giudice Cipolla ritiene le sue dichiarazioni “prive di un vero e proprio carattere di novità ma confermative degli elementi di prova già esistenti a carico di alcuni imputati, posto che per altri il Galatolo ha riferito in modo generico, incompleto se non addirittura reticente”. In particolare i verbali del boss dell’Acquasanta “tendono ad alleggerire la posizione di alcuni soggetti (Santo Graziano e Filippo Matassa, ndr) aggravando quella di altri e quindi sembrano frutto di una precisa strategia difensiva”.
Nei confronti di Graziano e Matassa, che è anche suo suocero, “Galatolo ha mantenuto un atteggiamento non pienamente collaborativo teso a sminuire la responsabilità dei due se non addirittura, come nel caso di Graziano, ad escludere ogni coinvolgimento nell’associazione”. Sono i due soggetti che, annota il giudice, “assicuravano il costante mantenimento” di Galatolo “attraverso l’invio di ingenti somme di denaro provenienti dalla cassa della famiglia mafiosa di riferimento”. Non si può escludere, insomma, che il boss possa avere scelto di riservare loro un trattamento di favore. Neppure i pm, e il giudice Cipolla lo fa notare, lo hanno, però, ritenuto attendibile, tanto che Matassa è stato condannato a 12 anni e otto mesi, mentre Santo Graziano a otto anni e otto mesi.
A non convincere del tutto sono pure le dichiarazioni in cui Galatolo ha ricostruito i suoi affari con la famiglia dei costruttori Graziano. Il boss ha parlato di due investimenti: la vendita di alcuni box in via Corradini – da cui Galatolo avrebbe ricavato i 250 mila euro “investiti” per comprare il tritolo che doveva servire per l’attentato al pm Antonino Di Matteo – e la costruzione di un complesso immobiliare in via don Milani. “Le dichiarazioni – scrive il giudice – hanno solo valore di conferma, fatta eccezione per la vicenda relativa all’acquisto del tritolo su cui non risultano, allo stato, sottoposti a questo giudice, elementi di riscontro”.
Così come non ci sono riscontri alla sua generica affermazione di essere socio in affari con i Graziano. Anzi, il gup Cipolla segnala le “reticenze del Galatolo sulla disponibilità di ingenti somme di denaro di sicura provenienza della cassa della famiglia mafiosa e sul cui utilizzo il dichiarante non ha fornito alcuna indicazione”. Galatolo aveva un elevato tenore di vita che, a suo dire, era dovuto “alle entrate degli affitti della case”. Nulla invece ha detto su un investimento per aprire un bar a cui ha partecipato anche lui. “Né tanto meno ha chiarito – conclude il giudice -, se non limitandosi a un generico riferimento, come abbia potuto immettere nel sistema del gioco (era un grande scommettitore, ndr) la somma di 660 mila euro (ricavandone 591 mila sotto forma di vincite) come risulta dal resoconto delle scommesse giocate”. C’è il dubbio, dunque, che il pentito possa avere favorito alcuni e cercato di proteggere i suoi interessi economici.