"Giovanni era morto, sento ancora le sue mani nelle mie"

“Giovanni era morto, sento ancora le sue mani nelle mie”

Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala. I compleanni insieme. L'amicizia. E l'amarezza.
L'INTERVISTA
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3 min di lettura

“Siamo nati lo stesso giorno di anni diversi. Io e Giovanni Falcone abbiamo festeggiato dieci compleanni insieme. All’undicesimo lui non c’era. Ma era assente giustificato”.

Giuseppe Ayala oggi, diciotto maggio 2023, compie settantotto anni. Giovanni Falcone, invece, ne avrebbe compiuti ottantaquattro, se la sua vita non fosse stata fermata sull’autostrada dalla mafia. Il pm che vinse il maxi-processo e il giudice istruttore che mise a punto quel capolavoro giuridico erano amici inseparabili. Questa intervista è la cronaca di fatti, pensieri ed emozioni che nessuna carica di tritolo potrà mai disperdere.

Dottore Ayala, oggi è una ricorrenza speciale.
“Sì, certo, il compleanno è una cosa particolare. Ma il mio legame con Giovanni è quotidiano ed è difficile da spiegare. Ancora oggi, talvolta, mi dico: chissà cosa ne penserebbe lui, chissà cosa mi direbbe… Mi reputo il destinatario di un privilegio: averlo conosciuto, avere guadagnato la sua fiducia ed essere diventati come fratelli. Io sono figlio unico, prima non avevo mai avuto l’occasione. Giovanni diceva di me: ‘Giuseppe è il mio fratellino’”.

Chi era Giovanni Falcone, visto da vicino?
“Uno che amava ridere. Un uomo dotato di grande umorismo, che andava pazzo per le battute demenziali. Abbiamo vissuto praticamente insieme. Abbiamo viaggiato tanto, nelle rogatorie che, grazie a lui, non si risolvevano più in un passaggio di carte. Un progresso investigativo utilissimo”.

Ricorda qualche trasferta in particolare?
“I sistemi di sicurezza erano impenetrabili. Aereo, carcere, palazzo di giustizia, macchina e albergo. Una volta, a Bruxelles, chiedemmo alla scorta di visitare la Grand Place. Ci venne concesso, ma senza scendere dall’auto. In aeroporto comprai una cartolina proprio della Grand Place e la mostrai a Giovanni: ‘Lo vedi, io ci sono stato e tu pureeeee!’. Scoppiò a ridere”.

Tanta ironia, nonostante i rischi altissimi.
“Era il meccanismo che ci salvava. Quando entravamo in ascensore, Giovanni osservava la targhetta con la capienza e sfotteva: ‘Giuseppe, qui non calcolano il nostro peso morale. Secondo me non sale…’.

Lei, come ha raccontato, è salvo per quello che ha definito un ‘nonnulla’.
“Sì, il 23 maggio del ’92 dovevo essere con Giovanni che mi avrebbe dato un passaggio in macchina, dopo il ritorno da Roma. Ero stato eletto in Parlamento e anche io desideravo una pausa”.

Ma?
“Francesca Morvillo, la dolce moglie del mio amico, era impegnata nella commissione di un concorso in magistratura, per questo il ritorno fu programmato sabato e non venerdì. Mia moglie Natalia voleva raggiungermi a Roma. Non partii più”.

Sento una voce in sottofondo.
“E’ mia moglie che mi dice: ‘Ti ho salvato la vita’”.

Lei, dunque, è un sopravvissuto.
“Come ha scritto Filippo Facci, giornalista che stimo: ‘Speriamo che Ayala abbia superato il torto di essere rimasto vivo’”.

Mi pare chiaro che lei si riferisca anche all’ultima sentenza in cui le si rimprovera di avere fornito troppe e contraddittorie versioni sulla borsa del giudice Paolo Borsellino, in via D’Amelio.
“C’è una diffusa tendenza alla dietrologia. Mi si rimprovera, appunto, di avere le idee confusissime, per le risposte a domande fatte anni dopo. Ero sotto un gravissimo trauma psicologico. Avevo avuto davanti quello che restava del corpo di Paolo Borsellino. Mi amareggia molto questo, ma è vero che in confronto a quello che ha subito Giovanni è una fesseria. Se avessi qualcosa da nascondere, avrei anche una inattaccabile versione di comodo. Sa cosa scriveva Nino Caponnetto, capo del pool antimafia?”.

Cosa scriveva?
“Le cito testualmente un estratto del suo libro: ‘Con Ayala ho sempre avuto e conservo rapporti molto affettuosi. E’ uno dei pochissimi magistrati, forse l’unico della Procura, sul cui conto non ho mai avuto riserve e ho avuto un rapporto chiaro e limpido. Lo stimo molto’. Caponnetto è cassazione”.

Quel giorno, dunque.
“Ero a Roma e ricevetti la telefonata di mio figlio: ‘Papà, accendi la tv’. Mi precipitai all’aeroporto, ma non c’era posto. Fu la hostess ad avvertirmi che, dopo un appello del comandante, un passeggero mi aveva ceduto il suo. Mi imbarcai grazie a un gesto di generosità”.

Vide Falcone?
“Sì, nella camera mortuaria. Lui era integro, lo stesso Giovanni di ogni giorno: era stato ucciso dall’emorragia interna. Ci lasciarono soli”.

Cosa accadde?
“Gli presi le mani e scoppiai a piangere. Le sue mani le sento ancora nelle mie. Giovanni è sempre con me”. (Roberto Puglisi)


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