La fabbrica delle ingiustizie | I giudici delle condanne vuote - Live Sicilia

La fabbrica delle ingiustizie | I giudici delle condanne vuote

Prima Contrada, poi le bugie di Scarantino. La settimana nera della giustizia italiana.

PALERMO – Due bordate in una settimana. La revoca della condanna a Bruno Contrada e l’assoluzione degli innocenti ingiustamente carcerati per la strage di via D’Amelio recidono i grappoli malsani nella vigna della giustizia. Grappoli di giudici, legati gli uni agli altri come acini. Ci sono voluti quasi tre decenni per arrivare alla conclusione che decine e decine di magistrati, inquirenti e requirenti, si erano sbagliati nella forma e nella sostanza.

Nel caso dell’ex poliziotto è stata la Corte di Cassazione a dichiarare “ineseguibile e improduttiva” la sentenza che ha costretto Contrada a rimanere in carcere per dieci anni. Prima, però, è dovuta intervenire la Corte europea dei diritti dell’uomo a spiegare ai giudici italiani che non si può processare un imputato per un reato che non era “chiaro e prevedibile” quando gli è stato contestato. Nel caso del processo per l’eccidio di via D’Amelio sono stati i pubblici ministeri di Caltanissetta a smascherare le bugie dei pentiti prese per oro colato, nonostante l’olezzo dell’impostura fosse stato percepito da più parti ma non dai magistrati.

Come riassumere la vicenda Contrada? Esiste una giustizia europea e una italiana. O meglio, all’italiana. La prima bacchetta la seconda perché viola la convenzione dei diritti dell’uomo che i governi si sono impegnati a rispettare. Fino a quando i giudici di Strasburgo si sono limitati a condannare l’Italia a risarcire gli imputati per gli errori commessi e per i tempi biblici dei nostri processi è filato tutto liscio. Giusto un richiamo nelle ripetitive relazioni durante la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Ora che la Cassazione ha recepito la sentenza europea revocando la condanna di Contrada, lo sbirro Contrada colluso con la mafia – dunque intervenendo in un giudicato – è scoppiato il finimondo. Autorevolissimi esponenti della giustizia, non solo all’Italiana ma pure antimafia, non l’hanno presa bene. Dal “non ha capito” di Giancarlo Caselli rivolto alla Corte europea all’aggettivo “stupefacente” speso nel commento di Antonio Ingroia. Erano rispettivamente il procuratore capo di Palermo e il sostituto che misero sotto accusa Contrada, dando vita al grappolo giudiziario in una stagione fondata sull’articolo 110 del codice penale. “Quando più persone concorrono nel medesimo reato , ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita – recita l’articolo applicabile a tutte le fattispecie di reato – salve le disposizioni degli articoli seguenti”. Tre righe divenute un contenitore confortevole specie nella declinazione del concorso in associazione mafiosa. Nel frattempo le sentenze della Cassazione hanno fatto giurisprudenza e il reato che non c’era ormai c’è, anche se resta parecchio discusso e mai normato. Siamo rimasti fermi alle tre righe.

Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati: i pubblici ministeri che ne chiesero l’arresto, i giudici per le indagini preliminari che applicarono la misura cautelare; quelli del Riesame che lo lasciarono in cella; i giudici del Tribunale che lo condannarono e della Corte d’appello che prima lo scagionarono e poi confermarono la pena; e i giudici supremi della Cassazione che misero il bollo di definitività sull’accusa. Tutti a disquisire, nelle varie motivazioni, sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ad interpretarne l’applicabilità nel caso dell’ex capo della Squadra mobile di Palermo e a concludere che il reato si cuciva perfettamente addosso al poliziotto. Nessuno che si sia accorto o abbia sollevato la questione che due decenni dopo sarebbe stata rimproverata all’Italia dai giudici europei.

La convezione europea, con la firma di tutti i paesi che vi hanno aderito, recita all’articolo 7 che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. Contrada è stato processato per episodi collocati tra il 1979 e il 1988, quando il reato di concorso esterno in associazione mafiosa “non era sufficientemente chiaro e prevedibile all’imputato”.

“Ciò che conta per la Corte europea è innanzitutto che, al momento del compimento della condotta – spiegava il legale di Contrada, l’avvocato Stefano Giordano nei giorni in cui presentava il ricorso che poi sarebbe stato accolto – un precetto penale accessibile e conoscibile, preciso e determinato esista e che il singolo abbia la capacità di orientare il proprio comportamento in funzione di questa norma”.

L’articolo 7 è un elemento essenziale dello stato di diritto sovranazionale. Lo dimostra il fatto che non sono previste deroghe “neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”. La sua applicazione rappresenta “una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie”. Ed ecco il cuore della questione Contrada. Salvo colpi di scena, che non dovrebbero arrivare dalla lettura della motivazione della Cassazione, il sistema giudiziario ha ricevuto uno schiaffo con la forza del diritto. Si condanna qualcuno per i reati che esistono e non per quelli ex post contestati in maniera retroattiva.

Astrazioni del diritto che non fanno breccia in una parte della magistratura italiana, tanto impegnata nella lotta alla mafia da distrarsi. Sempre secondo Caselli, d’altra parte, sia la Cassazione che la Cedu “ragionano in astratto, come in vitro, come se la mafia non esistesse”.

Leggendo le motivazioni delle varie sentenze che hanno riguardato Contrada emerge che il faro giurisprudenziale di tutti i giudici è stato individuato nella sentenza Demitry, dal nome di Giuseppe Demitry giudicato per concorso nell’associazione camorristica capeggiata da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. La sentenza, però, è del 5 ottobre 1994, sei anni dopo i fatti contestati a Contrada. È vero che del reato si era già occupata la Cassazione in altre sentenze tra il 1987 e il 1993, “tuttavia – hanno scritto i giudici europei – è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno”.

La sentenza Demitry è stata la bussola non solo dei pignoli giudici europei, ma pure di quelli italiani che hanno giudicato Contrada. “Particolarmente controversa è stata, poi, la questione relativa alla peculiare configurabilità del concorso eventuale o esterno nel reato associativo mafioso – scrivevano – che da ultimo ha trovato positiva soluzione in una recente sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (la Demitry, appunto) che, per la fonte autorevole da cui promana, la massima istanza regolatrice di legittimità, e per l’ampia panoramica giurisprudenziale in essa compendiata dei diversi indirizzi ermeneutici affermatisi nel tempo, non può non costituire necessario punto di riferimento in tale materia”. Peccato che risaliva al 1994. Se non fosse stata applicata in maniera retroattiva ci sarebbe stato un grappolo di giudici in meno.

Così come, con qualche “se” in meno, la giustizia italiana si sarebbe risparmiata una delle pagine peggiori della sua storia, che ha dato vita al grappolo dei grappoli. È un fatto numerico. Per la vicenda Contrada sono stati celebrati due processi (con relativi appelli e rinvii della Cassazione), mentre nel caso della strage di via D’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e agli uomini di scorta, il numero dei processi definiti con sentenza irrevocabile sale a tre prima. Solo nel quarto sono state smascherate le bugie di Vincenzo Scarantino e soci. Dovendo inserire nell’elenco anche i giudici popolari, a conti fatti, più di cento persone hanno letto e riletto i verbali dei pentiti farlocchi, ascoltato in aula gli avvocati urlare che si stava alimentando un abbaglio collettivo, accettato la versione dei pubblici ministeri che a quelle bugie hanno dato la veste di pseudo prove processuali. E sono fioccati gli ergastoli, nove per la precisione. Alcuni anni fa, dopo decenni di carcere, gli imputati sono stati liberati. E dire che leggendo la sentenza del processo Ter, emessa dalla Corte d’assise allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, avrebbe dovuto suonare la sveglia. Il Ter è l’unico processo che si è salvato dalla mannaia avendo giudicato i boss della Cupola di Cosa nostra, i quali diedero il via libera alla strage. Nelle motivazioni di quella sentenza le dichiarazioni dei pentiti erano state bollate come spazzatura, altro che prove. Un “parto della fantasia”, le avevano definite i giudici, mettendo in guardia i colleghi. Niente, le condanne sono arrivate lo stesso.

Nel quarto processo, avviato con coraggio dai pubblici ministeri di Caltanissetta, alcuni dei promotori della stagione inquisitoria divenuta carta straccia, hanno consegnato ai verbali di udienza balbettii e imbarazzanti “non ricordo” che ora alimentano la traiettoria infinita dei sospetti. Le dichiarazioni rese in aula sono le uniche pronunciate da quei cento e più giudici – togati e popolari – del grappolo che ha indagato, giudicato e condannato degli innocenti. Fuori dal bunker nisseno silenzio assordante.

Fino al 25 maggio scorso, quando a Catania hanno preso la parola Concetta Ledda e Sabrina Gambino, sostituite procuratrici generali del processo per la revisione degli ergastoli ingiusti. “Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante – hanno detto – non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio”. La Corte d’assise due giorni fa ne ha preso atto e ha assolto “per non avere commesso il fatto” undici imputati – compresi i pentiti delle menzogne – alcuni dei quali rimasti a lungo in cella con la prospettiva eterna del fine pena mai.

È la giustizia italiana e all’italiana che ne è uscita con le ossa rotte. Quella che grida alla lesa maestà quando qualcuno a Strasburgo ricorda che la certezza del diritto non è soggetta alle interpretazioni.


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