Giustizia e potere |Il bricolage delle riforme - Live Sicilia

Giustizia e potere |Il bricolage delle riforme

L'analisi del procuratore aggiunto di Catania, Francesco Puleio.

L'INTERVENTO
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6 min di lettura

Negli ultimi venti anni, quasi ogni governo si è ripromesso di legare il suo nome ad epocali riforme della giustizia. In realtà si sono sempre introdotte toppe e rammendi, in un bricolage più o meno raffazzonato (quando non interessato) che ha coinvolto questo o quel settore della complessa macchina giudiziaria, senza essere in grado di mutare significativamente lo stato dei problemi. Ora è annunciata una nuova iniziativa legislativa. Sarebbe la benvenuta se affrontasse la questione centrale della giustizia italiana: quella gravissima dei tempi. Si è chiesto mille volte, da tutti. Il problema però rimane enorme e strutturale. Sono necessari ammodernamenti informatici, qualificazione del personale amministrativo, semplificazione dei pesanti e spesso inutili orpelli procedurali, certezza della pena e deflazione del dibattimento mediante incentivi ai riti alternativi. Tanta roba, per le nostre attuali membra esauste.

Ma, inevitabilmente, dei tanti e diversi problemi che affliggono il sistema giudiziario italiano, tiene banco adesso quello rivelato dalla vergogna dei traffici tra parlamentari e magistrati per coprire posti rilevanti in uffici giudiziari e della valanga di messaggini e conversazioni captati e tesi ad una penosa realtà di mercanteggiamenti personali.

All’ordine del giorno vi è così la riforma della legge elettorale per la parte del Csm composta da magistrati (curiosamente, di quella eletta dal Parlamento, parimenti coinvolta nei compromessi con le toghe, non si parla). Ora, quasi ogni quadriennale elezione dei componenti del Csm si è svolta sotto nuove leggi, tutte adottate all’insegna della lotta al correntismo nella magistratura.

Il più delle volte le intenzioni politiche non si sono realizzate, perché le associazioni di magistrati esistono e non si cancellano per legge. Lo fece, quasi cento anni fa, il regime fascista con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, che vietava agli impiegati pubblici l’adesione a qualunque sindacato ed imponeva di devolvere la propria Cassa a un qualche sindacato fascista creato ad hoc. L’Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia (Agmi) decretò così, con un gesto di sfida al regime, il proprio autoscioglimento. Con un editoriale dal titolo “L’idea che non muore”, apparso sull’organo di stampa associativo, se ne spiegavano le ragioni: «la mezzafede non è il nostro forte: la ‘vita a comodo’ è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire».

Caduto il Fascismo, l’Associazione nazionale magistrati (Anm) si ricostituì ufficialmente il 21 ottobre 1945, mentre quelle che sarebbero divenute le ‘correnti’ presero vita sul finire degli anni ’50, con la nascita di Terzo potere, espressione soprattutto della magistratura di primo grado (1957), e dell’Unione magistrati italiani (1961), che riuniva prevalentemente i magistrati di cassazione; più tardi si sarebbe costituita Magistratura indipendente, la corrente più moderata (1962), e poi, ancora, Magistratura democratica, portatrice di idee più progressiste (1964). E fu proprio l’associazionismo, quale strumento di dibattito e di orientamento culturale, a guidare la magistratura nella lunga marcia di affrancamento dal potere politico, imboccando la strada di una reale indipendenza, nel corso della quale il sistema giudiziario divenne garante dell’effettività dei diritti sociali, venendo a misurarsi, nel volgere di pochi anni, con stragismo, terrorismo, mafia e corruzione sistemica, in una sino ad allora inedita funzione di controllo delle logiche di potere più o meno deviate.

Come si vede, vicende non prive di pagine luminose, dolorosi lutti e grande dignità istituzionale. E i raggruppamenti si distinguevano per significative diversità riguardanti il ruolo del giudice giurista, chiamato ad interpretare le leggi prima di applicarle, oppure relative alla visione dell’organizzazione degli uffici giudiziari e delle loro priorità. Concezioni diverse, radicate nella storia, fondate sulla Costituzione: legittime, ma diverse. Perché chi ancor oggi proclama che i giudici non interpretano, ma applicano le leggi, dice una sciocchezza. Nel corso dei secoli, sembravano crederci personaggi più o meno illustri, da Giustiniano a Robespierre a Lenin. Ma non è mai stato vero. Il sistema delle leggi, con la Costituzione al vertice, è più complesso di quanto costoro mostrino di credere. E le opzioni interpretative, degnamente argomentabili, sono molteplici. In questo contesto la magistratura prese a dividersi, dando inizio a forti, talora violente, spesso nobili discussioni. E il Csm, in un modo o nell’altro eletto dai magistrati, ne è stato lo specchio. Con pagine buie o almeno inadeguate, certo. Ma anche con pagine di altro segno. La magistratura, con la Sezione disciplinare del Csm, ha espulso e sanzionato i magistrati iscritti alla P2. Quale altra istituzione della Repubblica ha fatto lo stesso?

Spiace constatare che in tempi ancora più recenti, le associazioni di magistrati, dapprima chiaramente identificabili per la loro impostazione culturale e professionale, hanno visto scolorire le differenze ideali, divenendo progressivamente sempre più vicine a meri strumenti di gestione del consenso. In questo quadro, ha agito da detonatore la riforma che nel 2007 ha previsto la temporaneità degli incarichi direttivi ed abolito l’anzianità senza demerito quale criterio per la loro assegnazione. Intendiamoci: non che il sistema precedente fosse esente da censure. La direzione degli uffici affidata a magistrati anziani, al termine del loro percorso professionale, se preservava da eccessi ed arbitrarie logiche di schieramento, aveva talora comportato delle gestioni acefale di strutture complesse che richiedevano invece capacità organizzative e dinamismo, tratti talora estranei alla mentalità ed alle caratteristiche dei soggetti nominati quale premio alla carriera. Tanto per fare un esempio ormai divenuto di scuola, anziché Giovanni Falcone, il Csm preferì nominare alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo il (molto) più anziano Antonino Meli, che smantellò il pool antimafia azzerandone il metodo di lavoro.

Come che sia, le modifiche hanno diabolicamente innescato un perverso circuito, nel quale alla transitorietà degli incarichi si è accompagnata la possibilità di ottenerne di nuovi e diversi scavalcando graduatorie decennali, e sempre con l’imprescindibile richiamo al ‘merito’. Le storie che ora emergono sono l’ultima degenerazione, storie trasversali alle correnti, che vedono pochi maneggioni gestire interessi loro, forti dei voti ottenuti e che manovrano.

Purtroppo la caduta del senso istituzionale si manifesta anche nella magistratura (eletti e elettori sono tutt’uno), e non si risana con espedienti legislativi. Siamo di fronte ad un problema di etica e dignità professionale, cui poco gioverebbe l’idea strampalata ed incostituzionale di far eleggere i magistrati del Csm mediante sorteggio. Rimuovere le deviazioni clientelari che si nascondono sotto le apparenti diversità non può voler dire abolire ogni possibilità di scambio culturale sui caratteri della funzione del magistrato. Pur mortificate dai mercimoni al disvelarsi dei quali stiamo assistendo, esistono ancora, e meritano rispetto e valorizzazione, le esigenze di confronto e di dialogo tra diverse visioni della giustizia che devono trovare sintesi proprio nel Csm, rettamente inteso.

Con tutto ciò, è evidente che il peso delle lobby trasversali che troppo spesso gravano sulle scelte del Consiglio deve essere eliminato, e che deve essere ripristinata la correttezza delle scelte di conferimento degli incarichi. Ma qui cominciano le difficoltà. Come è stato osservato, è proprio la identificazione e la valutazione del merito il problema. Vi sono tra i magistrati, come in tutte le categorie, gli eccellenti, i mediocri e gli inadeguati. Uno non è uguale ad uno. Ma, al di là dei pochi giganti, dei tanti inetti e dei troppi infingardi, restano sempre molti candidati più o meno capaci e difficilmente classificabili sulla sola base di quanto risulta dal fascicolo personale, dove le valutazioni sfumano in una generalizzata e pertanto indistinta meritevolezza. Le soluzioni sono quelle di valorizzare l’attività svolta negli uffici e non quella prestata negli incarichi di sottobosco ministeriale, di attendere alle nomine secondo rigorosi criteri cronologici, assicurando trasparenza e pubblicità alle sedute, ascoltando il territorio e procedendo ad audizioni dirette dei candidati nei casi di maggiore rilievo; di evitare le nomine per blocchi (cd. a pacchetto), foriere di scambi e comparaggi; di imporre – per un congruo periodo – agli eletti al Csm od ad incarichi dell’Associazione magistrati o delle correnti il rientro in ruolo e la impossibilità di chiedere l’assegnazione di incarichi direttivi o semidirettivi. Cominciamo dal basso. Come si diceva un tempo, l’Intendenza seguirà.

Francesco Puleio
Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania


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