Separazione delle carriere? Sì, perché...

Giustizia, perché sono favorevole alla separazione delle carriere

I motivi di una riforma. Visti da sinistra

La mia ormai lontana militanza politica è stata caratterizzata da un animo movimentista orientato a sinistra.

Eppure, ho un’idea diversa rispetto a chi, PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra, ha votato contro l’approvazione, in prima deliberazione alla Camera, del testo di legge governativo sulla separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti.

Il fatto che sia questa destra, obiettivamente quasi ossessionata dal convincimento di una magistratura nemica, a intestarsi una rivoluzione di tale portata condiziona il giudizio sulla reale natura delle modifiche costituzionali che saranno apportate in un ancora lungo cammino parlamentare.

Lungo perché il testo approvato dalla Camera passerà al Senato e dopo tre mesi dovrà compiere nuovamente il percorso tra i due rami del Parlamento con un esito che probabilmente condurrà, se non si raggiungerà la maggioranza qualificata dei due terzi, al referendum confermativo.

Premesso quanto sopra, personalmente sono a favore della separazione delle carriere e le motivazioni addotte dai contrari alla riforma, specialmente quelle espresse in seno alla stessa magistratura, sembrano più delle preoccupazioni, assolutamente legittime, il timore, cioè, che separare le carriere possa costituire l’anticamera dell’assoggettamento del potere giudiziario al potere politico.

Non entrerò nel dettaglio degli otto articoli del testo di legge in esame limitandomi soltanto, per ora, a una riflessione di carattere generale.

Rimanendo fermi in Costituzione i principi della separazione dei poteri, dell’autonomia e indipendenza di tutti i magistrati rispetto all’Esecutivo e dell’obbligatorietà dell’azione penale dovrebbe essere salutata positivamente, come una sorta di completamento dell’introduzione nel 1988 del processo accusatorio con un giudice elemento terzo tra le parti in giudizio e con la formazione della prova nel pubblico dibattimento, la netta separazione tra chi dirige le indagini e poi accusa in aula (i Pm) e chi giudica.

Una commistione che era piuttosto plateale nel regime precedente centrato sul modello inquisitorio in cui Pm e giudice erano il medesimo soggetto nella fase d’indagine.

In atto, lo ricordiamo, vige la separazione delle funzioni. Nel 2006 (art. 13 del D.Lgs. n. 160) si è cercato di porre rimedio all’estrema facilità con la quale un magistrato poteva transitare da una funzione all’altra stabilendo che “il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione in cui il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni”.

Inoltre “il passaggio può essere richiesto per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata…”. Paradossalmente, l’avere introdotto tali stringenti limitazioni in qualche maniera sottolinea la giustezza della posizione di chi tende verso una chiara e definitiva separazione, fin dall’inizio dell’attività del magistrato, tra chi deve sostenere l’accusa e chi dovrà emettere una sentenza.

Piuttosto, va sottolineato un altro aspetto della questione ‘giustizia’ in Italia. La separazione delle carriere – lo ribadiamo, rimanendo intatti l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, la separazione dei poteri e l’obbligatorietà dell’azione penale – non risolve il problema di fondo, cioè la lungaggine dei processi (specie in ambito civile), l’insufficienza di strutture tecnologiche di ultima generazione e la carenza di personale, togato e non, rispetto ai carichi di lavoro.


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