I giudici sono "cosa nostra" - Live Sicilia

I giudici sono “cosa nostra”

Un vicino di casa del sostituto procuratore Maurizio Agnello gli fa sapere tramite lettera anonima che non è gradito. E vengono in mente altri tempi: quando i vicini di casa di Falcone scrivevano ai giornali per protestare, infastiditi. Ma davvero non riusciamo a cambiare?

Era una cittadina che pagava le tasse. Era vicina di casa di Giovanni Falcone. Il nome è giusto consegnarlo all’oblio. Scrisse una lettera al ‘Giornale di Sicilia’. Che la pubblicò: “Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato o domenica che tenga), al mattino, nel primissimo pomeriggio e alla sera (senza limiti di orario) vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora, mi domando, è mai possibile che non si possa riposare un poco nell’intervallo del lavoro e, quanto meno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte? Non è che questi ‘egregi signori’ potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici)?”.

Oggi, un anonimo vicino di casa del sostituto procuratore Maurizio Agnello scrive: “Perché noi condomini dobbiamo avere limitazioni di posteggio proprio di fronte il portone e subire ogni giorno l’assalto dei vigili? Ma, soprattutto, visto che la casa non è di sua proprietà, perché non se ne compra una, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene”. Questa città, dopo anni e anni, non ha ancora imparato la lezione. Non ha ancora capito che la lotta alla mafia non riguarda soltanto i magistrati e le forze dell’ordine. E’ un fatto di cultura, un problema comune. Magistrati e forze dell’ordine sono lì per rischiare, per reprimere e per fare luce. Ma poi intorno c’è una comunità che dovrebbe, con i suoi mezzi e con i suoi individui, avere a cuore la medesima urgenza di giustizia.

E’ triste il destino delle toghe nella città di Palermo. O sono idolatrate o sono disprezzate. Possono capitare entrambe le cose. Giovanni Falcone fu attaccato, massacrato, vilipeso, dagli stessi che posano periodicamente mazzi di fiori ai piedi del suo monumento funebre, dopo il 23 maggio del ’92. Falcone “lo sceriffo”, Falcone che aveva inventato l’attentato all’Addaura che voleva fare l’antimafia a Roma, chiamato dal ministro Martelli, per esclusive mire di carriera. Falcone insultato dai professionisti dell’antimafia nei salotti progressisti. Falcone “delle carte segrete” e dei misteri, odiato, antipatico e temuto, inviso alle “persone perbene” che non potevano parcheggiare in via Notarbartolo, lì dove adesso c’è l’albero, traguardo ogni 23 maggio, della commozione sincera di pochi e delle lacrime di coccodrillo di troppi.

La cittadina che pagava le tasse e l’anonimo scrivono, raccontando la stessa idiosincrasia, la medesima voglia di separazione. Entrambi auspicano che i magistrati stiano con i loro simili, lontani dai confini, appartati, come se non facessero parte del nostro stesso mondo. “Non è che questi ‘egregi signori’ potrebbero essere piazzati tutti insieme in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori”. “Perché non se ne compra una, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene”. Frasi pensate in tempi diversi e in circostanze dissimili, intrecciate nella stessa filigrana che dicono la stessa cosa: la mafia è cosa nostra, i giudici, purtroppo, non lo sono.

Possiamo tollerare i posteggiatori abusivi, le occhiate oblique in certi quartieri, gli ambulanti selvaggi, sistemati dove capita da un potere che nemmeno si nasconde. Possiamo alzare le spalle davanti agli ultimi omicidi e camminare tranquilli, leggendo le intercettazioni in cui un boss spiega come seppellire i nemici, in un feroce rito tribale, quando sono già stati accoppati secondo il migliore costume mafioso. Tutto ci parla di mafia a Palermo. Tutto ricorda chi comanda davvero. Noi lo accettiamo e respiriamo il clima. Il magistrato con la sua zona rimozione, lo avvertiamo invece ostile e nemico. Perché la misura della nostra civiltà e il dato del nostro più urgente desiderio civico sono rappresentati dalla signoria del posto sotto casa. E non è un discorso alieno. L’anonimo che ha imbucato la sua letterina nella cassetta di posta di Maurizio Agnello ha semplicemente più coraggio di noi – che la pensiamo allo stesso modo, in concreto, se siamo toccati personalmente, in astratto siamo tutti bravi… – pellegrini dolenti ogni 23 maggio all’Albero Falcone.

Allora c’è da cambiare tutto. C’è da prendere un cuore vecchio, buttarlo nel mare di Mondello e sostituirlo con uno nuovo. I magistrati non sono idoli da osannare, non hanno sempre ragione, ma vanno sostenuti, nella necessità di garanzie e sicurezza, perché custodi di una funzione sociale che non è estranea, né lontana, né appartata, perché lottano sulla trincea di tutti. Questi giudici sono cosa nostra.


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