PALERMO – Nei giorni scorsi un assessore della giunta di Crocetta ironizzava, di fronte all’ipotesi del voto anticipato, parodiando l’inno di Mameli: “Non siam pronti alla morte”. Non sono pronti, i deputati regionali e lo stesso governatore, al ritorno a casa. A restituire il voto ai cittadini. Quel voto democratico che viene quasi dipinto come il frutto di un “golpe”. E così, la nuova retorica di Palazzo dei Normanni poggia su due solide, solidissime basi. Da un lato, il fastidio per le “ingerenze romane” nei confronti di un presidente e di un parlamento eletti dai siciliani. Dall’altro, dalla necessità di portare avanti “le riforme”. Le fondamentali riforme. “Se il governo dimostra di saper fare”, hanno detto ieri molti esponenti della maggioranza, non c’è motivo che vada a casa.
Ma quello delle riforme è, chiaramente, un nuovo bluff di questa esperienza di governo. Una finzione in un certo senso “anomala”, visto che coinvolge anche, appunto, l’Assemblea regionale. In un balletto stucchevole e paradossale. In Sicilia, infatti, le riforme sono importanti soprattutto se non si fanno. Perché proprio il mantenimento nella fantomatica “agenda politica” di quegli obiettivi, giustificherebbe la sopravvivenza di un governo fallimentare e di un parlamento che ha dimostrato la propria inefficienza. E così appaiono certamente sensate – al netto della valutazione su un precedente, convinto appoggio all’esperienza crocettiana – le parole dell’unico parlamentare dimissionario, Fabrizio Ferrandelli: “L’elenco delle riforme da compiere altro non è che la lista dei nostri fallimenti”.
Una consapevolezza che, a dire il vero, ha iniziato apparentemente a diffondersi anche tra gli esponenti della maggioranza. Ad esempio, tra gli ex Articolo 4 che seguirono il compianto Lino Leanza nella scissione che portò a Sicilia democratica. “Il generico e vago ricorso alle riforme, da più parti richiamato, – si legge in una nota della segreteria regionale del movimento – non può essere l’alibi per invocare la continuità di un governo che ha valore solo se capace di fornire risposte concrete ai siciliani”. Parole che appaiono sotto certi aspetti “nuove”, se solo gli stessi deputati non si affrettassero a chiedere il nuovo, ennesimo, prevedibile “vertice di maggioranza”. Ma quantomeno, un concetto è approdato anche sulle banchine dei partiti che sostengono l’esecutivo: “Le riforme sono la copertina di un libro di cui Sicilia Democratica chiede, e subito, di scrivere le pagine”.
Perché in effetti, quello delle riforme è solo un libro dei sogni. Come quei diari sui quali, alla prima pagina, si annotavano i buoni propositi per l’anno appena entrato. Dimenticati già dal 2 gennaio. Nuovi vertici, nuovi “tagliandi”, questo chiedono le forze politiche al governo. Nascondendo in maniera goffa il vero obiettivo: quello di tirare a campare. Di conservare scranni e indennità. Di poter irrigare ancora un po’ e finché è possibile, l’orticello delle clientele, nonostante oggi le falde della Regione siano aride. Una ipocrisia che sta nei numeri. Che come al solito sono gli argomenti più convincenti.
In trentatrè mesi di legislatura, il governo e il parlamento non sono riusciti a condurre in porto qualcosa che, anche con generosità, possa essere definta “riforma”. Solo leggi finanziarie costantemente riviste, corrette, rimodulate sulla base, da un lato, delle impugnative del commissario dello Stato, dall’altra da accordi col governo centrale da sottoscrivere “ex post”. È ancora al palo, per intenderci, la riforma delle Province, che l’Ars intende approvare entro il 31 luglio, ma che ha già mutato il proprio identikit tante di quelle volte da non somigliare più a quella sbandierata a reti unificate, più di due anni fa ormai dal presidente della Regione. Che nel frattempo si è impossessato degli enti, attraverso i suoi fedelissimi sparsi per l’Isola. Una scelta che fa apparire un semplice “contrappasso” la minaccia del premier Renzi, di pochi giorni fa: “Governi, o vada a casa”. Frasi che hanno suscitato l’ira del governatore: “Un presidente del Consiglio pensa di potere mandare a casa chi è stato democraticamente scelto dai siciliani?”. Esattamente quello che ha fatto lo stesso Crocetta due anni fa, sciogliendo consigli e giunte che avevano ricevuto una legittimazione popolare, e addirittura togliendo – per legge – ai cittadini la possibilità di scegliere i nuovi consiglieri e i nuovi amministratori. Nel frattempo, i commissari “straordinari” sono diventati i padroni di casa di quegli enti che erano anche dei siciliani. Ma del flop delle Province abbiamo già detto diffusamente.
È ferma, però, anche la riforma che deve rivedere l’assetto del sistema idrico della Regione. Così ferma, da aver spinto il governo Renzi a parlare di un incombente commissariamento, visto che la Sicilia, dopo avere messo in liquidazione i vecchi Ato, non è stata capace di creare i nuovi soggetti che dovranno sostituirli. E lo stesso si può dire per il sistema dei ririfuti. Anche quella riforma non esiste ancora. Ma nell’agenda del governo non mancano le nuove “cose da fare”: lo ‘Sblocca Sicilia’, la legge sulla sburocratizzazione, quella sul reddito minimo garantito. E poi, magari, una norma che consenta ai 24 mila precari dei Comuni di approdare a una sacrosanta stabilizzazione, una nuova finanziaria e un nuovo bilancio che non potrà più contare sui Fondi per lo sviluppo e coesione, la legge sul “reddito minimo garantito” data in pasto ai siciliani dal governatore in giorni di aperta polemica col governo nazionale, poi la tanto attesa legge di riforma della Formazione o quella che dovrebbe bloccare l’Eolico in Sicilia. Bluff, solo bluff. Le “cose da fare” sono tante, proprio perché governo e parlamento non sono riusciti a farne una. Ma in un certo senso, è meglio così. E il bluff sta proprio lì. Finché c’è, apparentemente, qualcosa da fare, non c’è motivo di chiudere la baracca.