E’ ciò che immagini a condensare l’orrore. Una Fiesta Amaranto, vecchia e ansimante. sulla strada da Canicattì ad Agrigento. Alla guida c’è un ‘giudice ragazzino’. Una macchina sperona l’auto del magistrato, qualcuno spara, ferendolo. Lui trova la forza di aprire lo sportello e lanciarsi tra i campi in un tentativo disperato di fuga. Cade. L’odore della paura. Il battito accelerato del cuore. Un killer gli è addosso. Esplode i colpi letali. Così morì, a trentotto anni, Rosario Livatino, il 21 settembre del 1990.
Di quella storia e di molto altro si parla nel nuovo libro di Carmelo Sardo, giornalista del Tg5, che, dopo il successo di “Malerba” torna con “Cani senza padrone. La Stidda, storia vera di una guerra di mafia”, in uscita il 6 aprile, edito da Melampo. Un compendio che nasce dall’esperienza da cronista che tanto ha raccontato di quelle vicende insanguinate a cui ha aggiunto pagine pagine di interrogatori e sentenze, le testimonianze di magistrati e politici – da Vittorio Teresi a Calogero Mannino – e le interviste agli stiddari seppelliti dalle condanne anche per quell’omicidio.
Carmelo, che cos’era la ‘Stidda’?
“La Stidda, come la conosciamo noi, non è mai esistita”.
In che senso?
“Non era un’associazione criminale contigua e concorrente alla mafia, un’altra cosa, insomma. Erano, per così dire, i paria della violenza, coloro che non erano ritenuti degni di fare parte delle famiglie mafiose tradizionali. Venivano allontanati, ma restavano nel giro delle cosche perché potevano risultare utili. E’ stata la mitologia mediatica, basata pure sulle dichiarazioni di qualche pentito, a contribuire al miraggio”.
Cosa c’entra la storia del ‘giudice ragazzino’?
“Partiamo da un dato. Ci sono state tre sentenze che hanno individuato negli stiddari i mandanti e gli esecutori del delitto. Ma loro – perlomeno gli esecutori materiali, i picciotti di Palma di Montechiaro,- non sapevano nemmeno chi fosse davvero Rosario Livatino, per quello che ho potuto ricostruire”.
Qual è la tua ipotesi giornalistica?
“Che qualcuno, tra le famiglie di mafia dell’Agrigentino, strumentalizzò i killer allo sbando e li montò contro il magistrato, facendo credere che lui ce l’avesse con loro, organizzando la cosa grazie a un committente”.
Che interesse avevano le famiglie mafiose a eliminare un servitore dello Stato?
“Rosario Livatino era una toga integerrima. Era passato alla sezione delle misure di prevenzione che si occupava di sequestri e confische, intervenendo a fondo sui patrimoni. E sai perfettamente che un mafioso si prende pure la condanna all’ergastolo senza battere ciglio, ma se gli tocchi i soldi diventa vendicativo”.
Chi era il ‘giudice ragazzino’?
“Una persona con la schiena dritta che non guardava in faccia nessuno. Ho avuto conferme inequivocabili e testimonianze univoche. Un uomo tutto d’un pezzo in ogni circostanza. Non accettava favori né era propenso a farli. Una volta, rifiutò pure la raccomandazione di un amico prete. Pensava che un giudice dovesse rimanere tale sempre, in ogni occasione, che avesse il dovere di fornire un esempio di sobrietà e di equilibrio, anche nella sua veste privata. Viveva la sua professione come un sacramento. Anche per questo fu ucciso tra i campi, durante una corsa terribile e disperata, mentre cercava di mettersi in salvo”.
Per rendersene conto basta rileggere le parole pronunciate da quel martire discreto, poco incasellabile nella retorica ufficiale, in occasione di una conferenza e di un intervento al Rotary di Canicattì:
L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.