Non smettono di fornire sorprese le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, il sindaco mafioso di Palermo. Da quando ha cominciato a parlare coi magistrati, fa il giro delle procure italiane rivelando le vie del riciclo dell’immenso tesoro accumulato dal padre ma non solo. Al centro delle sue dichiarazioni c’è quella trattativa fra Stato e Cosa nostra intavolata da Totò Riina con pezzi delle istituzioni italiane e mediata proprio da don Vito. Non parla di cose “per sentito dire”, vuole consegnare la prova ai magistrati. Il famoso ‘papello’ redatto dal capo dei corleonesi e destinato a dettare le condizioni allo Stato. Il documento era nella sua cassaforte, insieme ad altri appunti del padre, quando nel 2005 fu eseguita la perquisizione che raccoglierà le prove per la sua condanna in primo grado per riciclaggio. Ma, in quel frangente, nessuno avrebbe controllato la sua cassaforte. Le nuove rivelazioni sono state fatte al procuratore capo di Catania, Vincenzo D’Agata, nell’ambito di un processo che vede coinvolti anche imprenditori di Palermo.
La storia si ripete. Ogni tentativo di far luce su quella stagione oscura fra le stragi di Falcone e Borsellino, con l’Italia pronta a entrare in quella che sarebbe stata denominata “seconda repubblica”, è finora andato a vuoto. Il covo di Totò Riina non è stato perquisito dopo il suo arresto, ma solo dopo una decina di giorni. Qualche anno dopo un mafioso confidente era riuscito a portare gli investigatori fino al covo di Provenzano ma l’allora primula rossa non è stata arrestata e lui è stato ucciso. Ora un altro tassello. Perché durante le perquisizioni a casa Ciancimino non è stata controllata la cassaforte dove, secondo il dichiarante, si trovava il ‘papello’ di Riina? I pm di Palermo sono a lavoro per fornire risposte a queste domande. Alla soglia del diciasettesimo anniversario della strage di via D’Amelio – la più oscura delle azioni terroristiche di Cosa nostra – l’interrogativo permane ma i tasselli stanno lentamente prendendo il loro posto.