Che oltre cento 41 bis fossero stati revocati l’ha saputo da un giornalista de “La Sicilia” il 7 novembre del 1993 e la sua risposta la ricorda ancora: “Ho detto che se si trattava di detenuti non facenti parte delle cupola poteva anche andare bene, altrimenti no”. Eppure sul suo tavolo era passata una relazione della Dia del 10 agosto 1993 che spiegava come “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla ‘stagione delle bombe’”. Nicola Mancino, abbassa lo sguardo, dice “non ricordo” testimoniando al processo contro l’ex generale del Ros Mario Mori. Ma la nota, un documento riservato declassificato lo scorso luglio, porta l’intestazione del ministero dell’Interno e la firma in calce dello stesso Nicola Mancino, che lo ha inoltrato, su sua richiesta, all’allora presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante.
“Ma di chi era la competenza a discutere di questa questione? – chiede retoricamente Mancino – La domanda non va rivolta a me, non ho nessuna competenza”. All’ex ministro viene chiesto come sia possibile che il titolare del Viminale, pur non avendo diretta competenza nella gestione dei regimi carcerari, essendo a conoscenza del quadro prospettato dall’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, da lui stesso nominato, non si ponesse il problema. “Di questo rapporto io ho valutato e sottolineato i meriti riferiti all’azione di governo” risponde Mancino che spiega come, nella misura in cui si riportava che se si fosse continuato con quella determinazione nel contrasto il fenomeno sarebbe stato circoscrivibile, non c’era problema. Ma, a dirla tutta, il problema c’è. E viene sottolineato anche dal giudice Mario Fontana. Come è possibile che neanche in consiglio dei Ministri se ne parlasse? “Lo Stato è uno, non è che ogni ministro va per i fatti suoi” dice. Ma la risposta è secca e senza appello: “Non se n’è discusso”.
Sta tutta nella divisione delle competenze la giustificazione di Mancino nel non essere a conoscenza di tutto quanto accaduto fra il 1992 e il 1993. Il regime carcerario era materia del Guardasigilli e del Dap e, seppur le nomine fossero fatte dal consiglio dei Ministri, di fatto si svolgeva un ruolo di mera ratifica delle decisioni di Claudio Martelli, prima, e Giovanni Conso, dopo. Anche la nomina prima di Nicolò Amato, poi di Adalberto Capriotti e del vice Franco Di Maggio, a Dap non era una questione che interessava all’allora ministro dell’Interno, che riponeva tutta la sua fiducia nei suoi colleghi del governo.
La testimonianza di Nicola Mancino, durata circa quattro ore, ha attraversato tutte le fasi salienti degli avvenimenti politici e istituzionali del biennio ’92-’93. A cominciare dall’allarme lanciato dal suo predecessore, Vincenzo Scotti, e dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, a proposito degli attentati previsti all’indomani dell’esecuzione di Salvo Lima, con tanto di nomi delle vittime predestinate: Giulio Andreotti, Calogero Mannino, Carlo Vizzini, Salvo Andò. “La storia di Ciolini (l’informatore da cui sarebbe nato lo spunto, ndr) in Parlamento era una provocazione da campagna elettorale – dice Mancino – com’è che c’è l’idea di mettere i nomi e i cognomi? Poi, arriva subito alle agenzie? È stato un dibattito amaro, antipatico, volevano le dimissioni di Parisi e di Scotti. Io ho fatto un sforzo per evitare la loro sfiducia. Ho dovuto difendere l’allarma più per senso di responsabilità che per convincimento”. Poi Mancino racconta che, in quei giorni, ha incontrato in transatlantico Lillo Mannino, “lo conoscevo, ci siamo salutati e mi ha detto di essere preoccupato per quelle notizie”. E ribadisce quanto messo a verbale di fronte ai pm: “’Il prossimo sarò io’ ha detto Mannino”.
Poi uno dei punti nodali, l’avvicendamento con Scotti a capo del Viminale, avvenuto l’1 luglio 1992. Scotti, infatti, ha testimoniato allo stesso processo come lui tenesse a mantenere la sua poltrona per dare continuità all’operato compiuto fino ad allora in tandem con Martelli alla Giustizia. Ma così non è stato e, nonostante gli fosse stata affidata una poltrona anche più rinomata, quella alla Farnesina (“nel cerimoniale viene prima” spiega Mancino), per Scotti era un pessimo messaggio dato alla mafia. Ora Mancino rivela che il problema era un altro, che Scotti non voleva dimettersi da parlamentare per non rinunciare all’immunità. Che lo stesso Mancino ha insistito perché Scotti mantenesse il suo posto al Viminale. Tutto il contrario di quanto affermato da Scotti in aula. Anche le dimissioni di quest ultimo da ministro degli Esteri sarebbero state inevitabili: “Non poteva fare altrimenti – spiega Mancino – tutti i ministri della Dc il 29 luglio 1992 si dimisero, non poteva rimanere lì come una rondine”. Anche qui Scotti aveva spiegato di aver annunciato le intenzioni di dimettersi sin da quando aveva preso l’incarico che avrebbe svolto solo per partecipare ad alcune riunioni internazionali. Poi, a margine, Mancino parla di un procedimento penale a carico di Scotti: “Una vicenda legata allo scandalo del Sisde, all’acquisto di un degli uffici, di cui non se n’è fatto nulla per scadenza dei termini.
Infine il racconto dell’ormai celeberrimo incontro con Paolo Borsellino quel 1 luglio 1992, quando Mancino si era appena insediato. Un incontro da sempre negato che, però, dal 2009, Mancino ha cominciato a non escluderlo. Racconta di aver ricevuto una telefonata da Vincenzo Parisi che gli annunciava la visita del magistrato. “Non escludo di avergli stretto la mano ma non lo conoscevo quindi non posso ricordarlo. All’insediamento c’erano 4-500 persone”.