In un suo affascinante dialogo Platone, parlando di politica e di giustizia, fa dire a Glaucone (incidentalmente, il suo stesso fratello) che agli uomini piace più apparire come giusti che essere giusti. Profetica suggestione, per la verità, solo che si ponga mente alle numerose riforme della giustizia cantierate e sbandierate negli ultimi trent’anni, da maggioranze di destra e di sinistra, e che non hanno mai ridotto la durata dei processi.
Ora è alle viste un ulteriore tagliando alla complessa macchina giudiziaria. Sono in discussione principi di portata costituzionale (obbligatorietà dell’azione penale; unicità delle carriere di giudici e pubblici ministeri) e norme di legge ordinaria (prescrizione; intercettazioni; abuso d’ufficio; legge Severino sul divieto di accesso a cariche pubbliche per i condannati). A colpi di slogan, si promette che dallo stravolgimento di questi istituti passa il miglioramento del servizio giustizia e la riduzione – ce lo chiede l’Europa – del numero di processi pendenti in Italia, quasi che quelle riforme possano incidere sull’arretrato dei tribunali e sulla lentezza dei giudizi. La persuasione collettiva viene offuscata, e accecata quasi, da un miraggio che da decenni ampi settori della politica e dell’informazione agitano davanti agli occhi dell’opinione pubblica: quello che esista un rapporto di causa ed effetto tra quei principi e quelle norme e la durata dei processi.
In realtà, l’azione penale è già condizionata da criteri di priorità che le Procure devono attuare, privilegiando la persecuzione di alcuni reati anziché di altri; i percorsi professionali di giudici e p.m. sono già separati nei fatti e per legge – praticamente nullo è il numero percentuale di magistrati distillati, come liquidi nell’alambicco, da giudici a p.m. e viceversa; la prescrizione sostanziale, che si vorrebbe reintrodurre, era già un premio per chi sapeva ad arte prolungare oltre misura il processo; il delitto di abuso d’ufficio è già quasi svuotato di contenuto; alla diffusione delle conversazioni intercettate la legge Orlando, da settembre 2020, ha già posto limiti significativi. Già, già, già: ma di questo si tace.
Non pare proprio, dunque, che su tali materie sia necessario e urgente una riforma, a meno che lo scopo dichiarato dell’efficienza della giustizia non celi l’ennesimo assalto alla diligenza della legalità. A quale cittadino onesto gioverebbe avere p.m. che indagano solo per provare la colpevolezza dell’imputato, anziché ricercare la verità, o vedere depotenziato l’unico strumento investigativo, l’intercettazione, praticabile nei reati di corruzione, mafia e inquinamento, in questo nostro grande Paese occidentale e democratico nel quale corruzione, mafia e inquinamento (e sino a ieri il terrorismo) allignano e prosperano senza alcun controllo che non sia quello, tardivo e residuale, del processo penale? Intervenendo senza criterio su materie che riguardano sostanzialmente la tenuta del nostro assetto costituzionale e l’efficacia della legge, non si renderebbero i giudizi più celeri, semplicemente li si strozzerebbe sul nascere o, peggio, dopo un tempo prestabilito, denso di inutili spese e di vane fatiche processuali.
In ogni caso, l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio troppo importante per essere abbandonato a cuor leggero, perché custodisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; la separazione delle carriere dei magistrati o la limitazione delle intercettazioni, poi, non c’entrano nulla con la lentezza del sistema. I magistrati stranieri in visita nei nostri uffici giudiziari restano allibiti da ben altro: i carichi e le sciagurate condizioni di lavoro dei giudici italiani. E non parliamo solo di altezzosi francesi, danarosi tedeschi o di ben pasciuti scandinavi, ma anche di frugali portoghesi, o di polacchi o baltici adusi a misurare le risorse col bilancino.
La ragione della patologia è, questa sì, ormai assodata: per fare funzionare un processo, occorrono leggi razionali e risorse: umane, materiali e tecnologiche, pensate e commisurate per gli effettivi bisogni del servizio. Per contro, la realtà è amarissima: sulla razionalità delle leggi incidono gli interessi di bottega, contrabbandati per efficientamento, e la mancanza di cognizioni pratiche di chi scrive le norme senza pensare alla loro praticabilità effettiva. Sulle risorse, spetterebbe al Governo, per Costituzione, dotare l’Ordine giudiziario dei mezzi per funzionare, compito questo al quale non sempre e non di buon grado si adatta: senza andare troppo lontano, ne abbiamo un esempio nel Palazzo di Giustizia di Catania, dove per accedere occorre superare la gincana delle transenne e i soffitti crollano per le infiltrazioni di umidità, sinora (per buona sorte, ma fino a quando?) non sulle teste degli operatori giudiziari, ma sugli arredi scompagnati e sgangherati con i quali si celebra il rito della Giustizia.
Purtroppo, se alla congenita scarsezza dei mezzi si sommano le criticità strategiche e organizzative, i risultati possono essere disastrosi.