Il bimbo che non sapeva piangere| Così una carezza l'ha salvato - Live Sicilia

Il bimbo che non sapeva piangere| Così una carezza l’ha salvato

foto d'archivio

I genitori condannati per tentato omicidio. In ospedale arrivò un corpicino devastato. E poi...

PALERMO – Il bambino dormiva rannicchiato in un lettino d’ospedale. Non guardava nessuno. Non ascoltava nessuno. E nessuno poteva raggiungerlo nel suo buio impenetrabile. Fu la mano di una donna ad accarezzarlo, tra il bip-bip delle macchine che tracciavano il battito di un minuscolo cuore spezzato. Fu una voce a sussurrare ‘cucciolo…’. Furono occhi materni a cercarlo. E lui trovò la forza di rinascere, perché una stella aveva illuminato la sua notte. No, quel bambino non si chiama, all’anagrafe, Gesù, anche se forse potrebbe, per suggestione, perché, in fondo, questo è il resoconto di un Natale speciale, a Ferragosto. La sua identità ha la necessaria protezione della più rigorosa privacy.

Per la cronaca dei verbali di polizia e delle aule di giustizia, si tratta del neonato al centro di un caso che sconvolse Palermo. Aveva appena tre mesi quando, nell’agosto del 2013, venne accompagnato al Pronto soccorso dell’Ospedale dei bambini. Il referto era tremendo. Un corpo devastato. Fratture e lesioni. La Tac svelò un campionario degli orrori. E nemmeno una lacrima, perché imparare a piangere può essere un lusso. I genitori – accusati di tentato omicidio – sono stati condannati: il padre a dieci anni, la madre a quattro anni e otto mesi.  In ospedale, avevano detto che il figlio si era ferito, cadendo. Per i medici, invece, era stato picchiato. Di parere contrario i periti della difesa che imputarono le lesioni, soprattutto, ai traumi del parto. Una perizia, disposta dal gup ha dato ragione ai dottori. Un giudice ha deciso.

Il piccolo, adesso, è sotto la protezione dei nonni, dopo avere ricevuto amore e dedizione in una casa famiglia, da persone generose che l’hanno vegliato e coccolato,senza perderlo mai di vista. La cartella clinica è spietata: certi danni saranno permanenti.

Ma questa è comunque la storia di un miracolo. “Quando sono entrata per la prima volta in rianimazione, non volevo guardarlo. Avevo paura di restare sconvolta per lo spettacolo della sofferenza”. Chi parla? Una donna, sì. Forse un’infermiera. Forse una dottoressa. Forse una signora delle pulizie. Forse la volontaria di un’associazione. Forse un’amica di famiglia. Forse una parente. Non è importante sapere il nome di una benedizione, di colei che, per prima, si chinò sull’abisso. “Il piccolino se ne stava tutto raggomitolato nel letto, attaccato a un orsacchiotto di peluche. Non si muoveva. Non piangeva. Me l’avevano detto. Come per una posizione di difesa, come per ripararsi dal male. E io, sì, avevo paura. A casa non guardo certi film, perché mi fanno impressione, come avrei potuto reggere dal vivo, tanta pena, in diretta? Poi mi sono fatta coraggiosa, per lui e per me”.

Ecco la mano che si avvicina, mentre il bimbo rimane pietrificato, in attesa. Ecco le dita che sfiorano con delicatezza un braccino. Una carezza. Un gemito. Una rinascita. Il passo successivo fu la scoperta dell’abbraccio: “Me l’accucciavo contro il petto e lo calmavo. All’inizio respirava forte, aveva il battito accelerato. Poi, riusciva a rilassarsi”.

Un continuo rimbalzo di affetti, da quel giorno. Il bagnetto. Le passeggiate alla villa. La creatura sfuggita alla notte non si separava mai dalla sua amica e dall’orsetto che l’aveva accompagnato nella degenza in rianimazione. Si scatenò una gara di bontà. Il centralino venne tempestato dalle richieste di affido. Ma quando chi stava dall’altra parte conosceva le reali condizioni del bimbo, dopo la solidarietà e la cortesia – così dicono – si manifestava un garbato desiderio di ritirata, una sommessa e spiacente ritrosia. Chi amerà l’esistenza indifesa? Chi la soccorrerà? Chi le sarà accanto per sanare gli inciampi con un’altra carezza, con un bacio sulla guancia?

Da un telefonino sbucano foto fresche. Un sorriso dolcissimo. Occhi ricolmi di gratitudine e di una gioia luminosa, scoppiettante. Braccia che si intrecciano ancora. Bagni in piscina. E di nuovo bellissimi sorrisi. 

La voce narrante, ora, si incrina in mezzo al racconto. Lacrime cadono, goccia a goccia, sul display del cellulare. “L’ho rivisto l’altra sera. Quattro passi in un viale alberato. Avevo presentato la domanda di affido, ma sapevo che non poteva essere accettata. Ci siamo abbracciati: ‘Bambino mio’, gli ho sussurrato, ‘io ti proteggerò sempre, anche se non potrò esserci sempre’. E a tutti gli altri dico solo: vi prego, non dimenticatelo”. Il pianto, adesso, lascia il posto a quegli abbracci che si nascondono e scavano dentro la corteccia odorosa della memoria, alberi piantati per durare. E nella notte dei bisbigli e dell’addio, il cielo sopra Palermo era pieno di stelle come non mai.


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