Il fumo di tabacco rappresenta la principale causa prevenibile di morte e precede in classifica l’obesità, l’alcoolismo e le malattie infettive. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la lotta al tabagismo si basa su una strategia in 5 punti: 1) divieto di fumo in ambienti pubblici; 2) programmi di sostegno per chiunque intenda smettere di fumare; 3) avvertenze grafiche sui pericoli del tabacco per la salute; 4) divieto di pubblicità, promozione e sponsorizzazione dei prodotti del tabacco, 5) aumento delle tassazione. Ed è proprio su quest’ultimo punto che vorrei fare qualche riflessione dopo l’annuncio della decisione del Governo Letta di tassare l’uso delle sigarette elettroniche per compensare il mancato aumento dell’IVA al 22%, un provvedimento che, secondo i tecnici, avrebbe ulteriormente depresso i consumi e ridotto, invece di aumentarlo, il gettito per lo Stato. Da tecnico dei danni da fumo, e non di quelli da tasse, mi sia concesso di dire la mia su un provvedimento che trovo, a dir poco, schizofrenico.
La tassazione dei prodotti del tabacco, composta dalla somma dell’accisa da consumo, dei dazi doganali e dell’IVA, incide in modo rilevante sul prezzo finale e rappresenta un importante cespite per gli Stati. Tuttavia, il saldo economico dovrebbe tener conto dello stratosferico costo sanitario che le Società sostengono a causa del tabagismo. Gli ultimi dati del Center of Disease Control (CDC) di Atlanta (USA) indicano in circa 97 miliardi di dollari annui il costo sanitario diretto del tabagismo, cui ne vanno sommati altrettanti di costi indiretti derivanti dalla perdita di produttività. Solo per gli USA, beninteso.
Riflettendo con il cinismo da ragioniere, si potrebbe obiettare che le morti premature fumo-correlate non sono solo redditi non prodotti, ma sono principalmente pensioni non più erogate. Tornando alle tasse, è stato calcolato che ogni incremento del 10% del costo delle sigarette comporta una riduzione del 3-5% del consumo, in particolare nelle classi di età più giovani e nei ceti più disagiati. Inoltre, gli Stati Americani in cui le sigarette sono tassate in modo più pesante sono quelli in cui sono più bassi la prevalenza di fumatori ed il consumo pro-capite.
Nel nostro Paese, il suggerimento dell’OMS maggiormente disatteso è quello relativo al sostegno al fumatore che intende smettere. Non esiste esenzione dal pagamento del ticket per le visite presso i Centri di Disassuefazione e i costi dei dispositivi di rilascio di nicotina (cerotti, inalatori, chewing-gum) e dei farmaci di cui esista prova scientifica di efficacia (bupropione, vareniclina) sono a totale carico dell’aspirante ex-fumatore. Lo scenario degli ultimi anni è stato sovvertito dall’avvento della sigaretta elettronica, un presidio che in effetti ne comprende diversi (per tecnologia, qualità e composizione dei liquidi) e sul quale le maggiori Società Scientifiche mantengono una doverosa cautela. Tuttavia, non si può negare che alcuni degli aspetti gestuali e “di rito” del fumare trovano un ragionevole succedaneo nella “svapata” e che la cessione controllata di nicotina è una riconosciuta strategia di limitazione del rischio generale e di controllo dei sintomi da astinenza.
Solo una settimana fa, un gruppo di ricercatori dell’Università di Catania e del CNR di Palermo (quale splendido Derby) hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista americana PLOS One un articolo http://www.plosone.org/article/fetchObject.action?uri=info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0066317&representation=PDF che dimostra l’efficacia di una marca molto popolare di sigaretta elettronica “medicata alla nicotina” nel ridurre e in qualche caso abolire il consumo di sigarette vere in fumatori volontari inizialmente non intenzionati a smettere. Il tutto in assenza di significativi effetti secondari. E’ doveroso sottolineare che questi dati non possono essere traslati a qualsiasi dispositivo in commercio e rendono ancor più indispensabile l’emanazione di direttive che governino una materia in tumultuoso divenire in cui, avendo fiutato il business, si muovono molti dilettanti allo sbaraglio.
Tornando all’ultimo balzello escogitato dai nostri spremi-pietre di Stato, è ragionevole ipotizzare che se davvero la tassazione sarà portata al 58% del prezzo di vendita, essi otterranno il duplice risultato di ridurre la differenza di costo tra il fumo elettronico e quello tradizionale e di spingere gli svapatori a cercare in mercati alternativi prodotti a più basso costo e di qualità inferiore. Il tutto mentre il solito Giudice Guariniello apre un’inchiesta dopo la scoperta di alcuni metalli pesanti nei liquidi per sigarette elettroniche (probabilmente ignorando che gli stessi sono abituali contaminanti di quelle vendute con il bollo dello Stato) e mentre lo Stato stesso non ha ancora definito a quale categoria merceologica appartenga il prodotto che tassa e a quali obblighi debbano sottostare produttori e commercianti. Tradizionale o elettronico, non c’è alcuna differenza: questi hanno proprio il cervello in fumo.