Il derby democristiano di Palermo |La sfida decisiva nelle periferie - Live Sicilia

Il derby democristiano di Palermo |La sfida decisiva nelle periferie

Totò Cuffaro e Leoluca Orlando

Orlando e Cuffaro, della stessa tradizione politica, quella della sinistra Dc, incrociano le lame

Amministrative
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Il derby democristiano a Palermo è entrato nel vivo. Si gioca tutto nelle borgate, i quartieri popolari che sono stati per decenni il terreno di mietitura dell’assistenzialismo e del clientelismo di marca Dc. Ed è dal seno della Dc di sinistra che sono state generate le due facce della sfida palermitana, i due campioni di quella scuola politica isolana, così diversi e così lontani eppure allattati alla medesima mammella e alfieri, più o meno consapevoli, di una comune tradizione politica. Che a Palermo a giugno si sfiderà in una battaglia dall’esito ancora non scritto per scegliere il sindaco della quinta città d’Italia. È la prima di una serie di scadenze elettorali, che anticipa le Regionali del 5 novembre, prova generale delle prossime Politiche.

A Palermo, il derby della vecchia Dc vede in prima linea l’eterno Leoluca Orlando, sindaco dello Scudo crociato in quota demitiana già nella primavera del 1985. E dall’altra parte, non in trincea ma nelle retrovie, Salvatore Cuffaro inteso Totò “Vasa vasa”, già potentissimo presidente della Regione, eletto due volte, già recluso a Rebibbia per una condanna per favoreggiamento alla mafia, oggi privato cittadino, privato in tutti i sensi, anche del diritto di voto, ma ascoltatissimo consigliere del centrodestra siculo in cerca di rivincita. Nonché grande regista del patto tra Forza Italia e i suoi seguaci centristi con il giovane candidato Fabrizio Ferrandelli, già pupillo d’Orlando nell’Idv, già giovane aspirante sindaco con padrini come Rosario Crocetta e Beppe Lumia, già deputato regionale diversamente renziano del Pd, dimessosi (caso più unico che raro) per prendere le distanze dal fallimento delle giunte Crocetta, insomma, uno che a nemmeno quarant’anni di trascorsi ne ha già a iosa e che adesso si presenta come il “Macron palermitano” che vuole unire destra e sinistra in nome del cambiamento. Ma a queste latitudini la sponda centrista non la offre un giscardiano come Francois Bayrou, ma appunto quell’area politica ancora orfana di Totò Cuffaro.

E così, semplificando al massimo come impongono i racconti in sintesi, la sfida di Palermo diventa nello storytelling siculo un derby tra Orlando e Cuffaro, due pezzi da novanta di vecchia Dc, due facce diverse di uno stesso modello politico, quello dell’assistenzialismo democristiano, l’unico mai sperimentato nell’Isola del quasi socialismo reale.

Orlando, 70 anni, viene dalla sinistra Dc. Fu giovane braccio destro di Piersanti Mattarella, il presidente fratello del Capo dello Stato, ucciso dalla mafia perché voleva una Regione con le carte in regola. Ha governato la città per una ventina d’anni negli ultimi trentadue, facendo sempre terra bruciata attorno a sé, non permettendo a nessuno di offuscarne la luce. Campione della retorica antimafia, sfidò con coraggio in anni assai complessi i potentati del suo partito. Del quale però imparò al meglio la politica del contatto fisico e della stretta di mano, che ancora oggi lo fa chiamare ‘u Papà nelle borgate. Il suo regno. Imbattibile nei quartieri popolari, il raffinato Professore vi ha consolidato il suo consenso negli anni delle disinvolte politiche assistenziali che portarono a imbarcate di precari di ogni sorta a pesare sui bilanci pubblici.

Assistenzialismo ammantato però da una retorica brillante, quella del coltissimo Orlando, uno che parla il tedesco meglio del siciliano ma ama “farsi toccare” dalla gente. Con un presenzialismo proverbiale, non c’è inaugurazione, convegno o taglio di nastro che il sindaco buchi, anche con quel gusto teatrale e un po’ istrionico, che lo ha visto negli anni, a seconda dell’occasione, vestito da sceicco arabo, da bersagliere con piume in testa, persino con tanto di boa fucsia al collo per un Gay pride. Orlando a Palermo è sinonimo di sindaco, lui “lo sa fare” recitavano i suoi fortunati manifesti della precedente campagna elettorale Lo sa fare da quando Bettino Craxi stava a Palazzo Chigi e Pertini al Quirinale.

E poi c’è Cuffaro, l’altra faccia della sinistra Dc. Quella popolare e popolana, di potere e di palazzo, quella guidata con mano sicura negli anni ‘80 dal potente ministro Lillo Mannino, di cui il giovane Totò fu apprendista Quella Dc che, infrantosi in mille pezzi lo scudo crociato, dopo il ’94 seppe mantenere il potere in Sicilia ammiccando ora a Berlusconi ora ai “comunisti” di Mirello Crisafulli e Angelo Capodicasa. Di quella stagione fu campione Totò “Vasa vasa”, dispensatore di doppio bacio alle file di clientes e amici che la mattina si presentavano in massa dalle parti di Villa Sperlinga, centro à la page di Palermo. Un uomo di popolo, dal suo popolo amato, anche dopo la galera.

Orlando e Cuffaro, due mondi lontani ma con più di un comune denominatore. Il professore con trascorsi d’attore (premiato) in Germania, che faceva colazione con Hillary a casa Clinton, e il radiologo di Raffadali dall’accendo, pardon accento, agrigentino, quello che nella “Palermobene” suona come il paesano per antonomasia. Il simbolo della riscossa antimafia, Orlando, che negli anni ’80 spalleggiato dai suoi gesuiti del “sospetto anticamera della verità” si batteva contro le incrostazioni politico-mafiose dando vita alla Primavera di Palermo. Celebrando anche processi sommari a questo o quel colluso, vero o immaginario, e che nella sua foga antimafiosa presero di mira anche Giovanni Falcone, quando il sindaco accusò la sua procura di “tenere le carte nei cassetti”. Quel Falcone incrociato anche da un giovanissimo Cuffaro – molto prima che la condanna lo trasformasse in un’icona speculare a Orlando, quella della politica che si ‘mpince, si impiglia, con Cosa nostra – in una memorabile trasmissione televisiva del tandem Maurizio Costanzo-Michele Santoro, con ospite il magistrato poi ucciso a Capaci, quando un appassionato e poco conosciuto Totò prese la parola dalla platea per difendere la sua Dc venendo liquidato dal baffuto conduttore del teatro Parioli con uno sprezzante “dopo i Puffi, anche Puffaro”.

Altri tempi, da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. I due si incrociarono nel 2001 per le regionali. Cuffaro fece un sol boccone di Orlando, candidato del centrosinistra, staccandolo di 22 punti percentuali. Ma quelli erano i tempi del 61 a 0 berlusconiano in Sicilia, un’altra era. Poi ci furono le accuse di favoreggiamento alla mafia, il processo dagli esiti altalenanti (con l’aggravante della mafia non riconosciuta in primo grado ma in appello sì), le dimissioni da Palazzo d’Orleans e infine la condanna a sette anni e i cinque e passa trascorsi a Rebibbia.

Ora Cuffaro, ufficialmente fuori dalla politica, ha scelto Ferrandelli, giovane aspirante sindaco che in certo senso gli somiglia e per certi versi somiglia anche a Orlando, soprattutto per la capacità di farsi sentire vicino dal “popolo”, che era specialità del Professore ai tempi d’oro. Ferrandelli lo sa fare, pur non avendo dell’attuale sindaco la profondità e l’allure di noblesse, quella che a Palermo si eredita col cognome, come accadde a Leoluca, che dal padre notabile ne ereditò ben due, Orlando Cascio, anche se il secondo fu abilmente rimosso negli anni per sotterrare il retaggio di un’altra era.

All’ex presidente della Regione, Ferrandelli piace assai. Forse rivede in lui la sua capacità di dialogo con il popolo. Quella democristianissima arte che Cuffaro, da sempre orgoglioso del suo Dna con lo scudo crociato, ha coltivato come pochi. E nei sogni dell’ex presidente della Regione, la rinascita democristiana si completerebbe con l’investitura a candidato governatore dell’ex rettore di Palermo Roberto Lagalla, uno che piace pure a renziani e alfaniani, magari pensando a un Patto del Nazareno in salsa sicula. Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo la partita di Palermo.

La sfida decisiva si combatte nelle borgate. Il centro città, incluso l’enorme centro storico, è obiettivamente rinato nell’era di Orlando, anche grazie a riuscite operazioni di pedonalizzazione, ai riconoscimenti internazionali come il bollino dell’Unesco sul patrimonio arabo-normanno della città e a un exploit del turismo, complice anche il crollo delle mete mediterranee sulla sponda nordafricana causa paura terrorismo. Ma i numeri per vincere si trovano nelle periferie, che a Palermo sono un concetto ampio, non strettamente geografico, basti pensare al microcosmo borgataro del Borgo Vecchio, quasi repubblica autonoma incastonata nel cuore della città, a due passi dal salotto buono di piazza Politeama. Ed è proprio da Borgo Vecchio che sullo sfidante Ferrandelli è piovuta addosso, per bocca dell’ultimo pentito, un’accusa di voto di scambio politico-mafioso su cui indaga la procura, una spada di Damocle che si è materializzata in piena campagna elettorale, alla comparsa dei primi manifesti.

Le borgate, terra di conquista del clientelismo democristiano. Quelle che la “visione” orlandiana vorrebbe unire al resto della città ma che arrancano ancora tra servizi del tutto insoddisfacenti in particolare sul fronte dell’igiene e dei trasporti. Luoghi in cui oltre alle promesse serve il linguaggio, la presenza, il contatto fisico. Un patrimonio che oggi, mentre i grillini restano alla finestra dilaniati da scandali, trappole e faide interne, si contendono “U Papà” e “Fabrizio”, col loro linguaggio del corpo, le strette di mano, la fisicità che è patrimonio di quella antica tradizione Dc. Che non se ne va. Quella Dc che qui è stata quella di Vito Ciancimino e Lima ma anche quella dei Mattarella e che con Mattarella è arrivata fino al Quirinale. La Dc incancellabile nell’italico Dna, di cui è figlio Matteo Renzi così come il suo strano alleato Angelino Alfano, che con Cuffaro dialogava bene ai tempi di Forza Italia nella natìa provincia agrigentina, e che oggi a Palermo sostiene Orlando acquattato in un’unica lista civica approntata col Pd di Rosario Crocetta, altro nemico giurato del sindaco. Pirandellismi che a queste latitudini ormai non fanno né caldo né freddo.

E così oggi a Palermo come altrove, si contrappongono schieramenti in cui tutto e il contrario di tutto convivono. Rifondazione comunista e alfaniani con Orlando, centrodestra ancien regime e giovanotti di sinistra con Ferrandelli. Altro che Macron. È un retaggio antico, in un’Italia talmente democristiana da spingere persino uno come Beppe Grillo ad ammiccare al voto cattolico. E la macedonia in fondo era già cifra politica di quella Democrazia cristiana in cui si muovevano morotei e andreottiani. Quella Dc che qui, nell’Isola che fu bianchissima, non se n’è mai andata. Quella che nel ’92, le ultime elezioni col proporzionale, eleggeva in Sicilia con Mannino e Sergio Mattarella anche evergreen come Totò Cardinale, poi ministro mastelliano e oggi ancora sugli scudi tra i renziani siciliani, al fianco dell’aspirante governatore Davide Faraone, e Vito Riggio, da quattordici anni a capo dell’Enac. Lo stesso Riggio che in tempi recenti s’è scontrato col vecchio compagno di partito e di corrente Orlando sull’aeroporto di Punta Raisi, uno dei tasselli pregiati del socialismo reale alla palermitana, rimasto saldamente nelle mani del sindaco (anche nella sua doppia veste di guida della Città metropolitana, la vecchia Provincia), così come le massicce partecipate, la più grande discarica della Sicilia, quella di Bellolampo, i teatri Massimo e Biondo, roccaforti della cultura in città. Una elefantiaca macchina di potere in mano a un circolo di fedelissimi. Basterà per garantire quel consenso elettorale che si somma a un voto d’opinione che a Orlando non è mai mancato? O a “Fabrizio”, Cuffaro e Gianfranco Miccichè riuscirà il tiro mancino? Al momento il tiro lo ha dovuto incassare Ferrandelli per la sopra citata inchiesta della procura. Un invito a nozze per i giustizialisti nostalgici della Rete orlandiana, che tra questa storia e i trascorsi di Cuffaro hanno fatto due più due, rifugiandosi nell’arrocco sicuro della politica antimafia, che denuncia malaffare ovunque al di fuori di essa. Il rischio del ritorno della “palude” è l’ultima evocazione de sindaco con toni ultimativi da après moi le déluge. Orlando lo grida ripescando i toni e le suggestioni dei suoi roboanti anni Ottanta, mentre i suoi si scagliano contro Ferrandelli che tra le altre trovate ha pensato bene di designare un assessore massone per gestire i fondi europei. Apriti cielo.

Ma da politico di razza, il sindaco sa bene che non basterà questa carta per ottenere il suo quinto mandato. Quello si deciderà nel derby delle borgate. Dove sembrerebbe che i grillini non attecchiscano più di tanto. Dove la voglia di Dc, che come la linea della palma sciasciana sale sempre più su, non è mai finita.


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