Il fantasma |di Pippo Fava - Live Sicilia

Il fantasma |di Pippo Fava

di DOMENICO VALTER RIZZO "Siamo stati cacciati dalla città, ci è stato tolto il diritto di raccontarla".

l'intervento
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CATANIA – Due ragazzi fanno l’amore dentro una Simca verde in una fredda sera di pioggia. Il loro amplesso viene interrotto da cinque lampi, cinque boati che esplodono nella loro testa, poi la tragedia che li avvolge. Da quel momento la loro scarna notte d’amore diventa un viaggio negli inferi di Catania, guidati dal fantasma dell’uomo che hanno visto uccidere. Inizia così la Ballata di San Berillo un’opera teatrale, o meglio un’orazione civile, straordinaria scritta da Salvatore Zinna, che mi aiuta a spiegare cosa è stato Giuseppe Fava per una generazione. Una generazione che, come i due ragazzi immaginati da Zinna nella sua Ballata, Fava l’ha conosciuto da morto e non da vivo.

Personalmente Giuseppe Fava l’ho incontrato solo due volte, due brevi colloqui nel suo studio al Giornale del Sud. Avevo portato un articolo e Fava giustamente mi disse che era troppo lungo e che dovevo ridurlo della metà. La cosa mi ferì, ero molto giovane e anche molto stupido, e la collaborazione finì con quel primo, unico, insignificante articolo pubblicato. Poi la vita mi portò altrove.

Discorso chiuso.

Non sapevo invece che quell’uomo, che mi parve burbero, scostante, avrebbe segnato il mio destino, il mio modo di intendere questa professione e forse anche la decisione definitiva di farlo, questo mestiere.

Ero in una fase ancora confusa della mia vita. La chiarezza arrivò tragicamente con quei cinque colpi di pistola sparati in una sera di pioggia. Da quel momento fare questo mestiere diventò una scelta di campo.

Quella sera segnò uno spartiacque tragico nella mia vita. Vi è stato un prima e un dopo. Prima di quella sera potevo ingenuamente pensare a questo mestiere come ad una professione neutra. Sapevo che avrei vissuto raccontando delle storie, perché quella era l’unica cosa che sapevo e volevo fare. Avevo lasciato la facoltà di medicina dopo il primo anno, nonostante gli strepiti di mia madre, proprio perché ero cosciente di questa condizione. Non sapevo come lo avrei fatto. Il giornalismo era una delle opzioni aperte. Lo rimase fino al 5 gennaio 1984.

Quella morte mi insegnò che questo mestiere non poteva essere neutro e io non volevo e non potevo essere neutro. O si sta con il silenzio o si sta con la parola, con la verità. E in quegli anni andava di moda citare Gramsci che diceva che la verità è sempre rivoluzionaria. Fare il giornalista, per me, era dunque un’azione rivoluzionaria.

Rileggere Giuseppe Fava dopo anni fa effetto, per la sua assoluta attualità. Credo che i suoi scritti dovrebbero essere obbligatori in ogni scuola di giornalismo. Forse uscirebbero meno galletti presuntuosi e più giovani colleghi disposti a faticare con umiltà e con la coscienza del proprio dovere.

Fava aveva fatto capire, anche a chi come me non aveva lavorato con lui, che senza una visione morale un giornalista diventa solo un cortigiano, un cantore di corte. Ci aveva insegnato che per quella visione morale si può anche morire. Che ci si può anche fare ammazzare solo per scrivere un nome. Un dettaglio banale per qualcuno. Una differenza enorme, che segna due visioni della professione. Per questo forse ancora oggi, dopo trent’anni, mi incazzo sui dettagli. Su cose che a molti sembrano banali. Perché spesso sono i dettagli a fare la differenza.

Dopo la morte di Fava fu inevitabile stabilire un rapporto con i ragazzi della redazione, alcuni li conoscevo già, altri diventarono amici e alcuni di loro come Rosario, Elena, Lillo, Giovanna, Claudio, Miki e Antonio, lo sono tutt’ora. Il rapporto non fu facile e non si stabilì mai una collaborazione organica. Ci si scambiavano idee, punti di vista, a volte notizie ma, vai a capire perché, alla fine abbiamo percorso sempre strade parallele. Era un gruppo chiuso, ferito. Erano diventati duri. Dall’esterno li vedevamo diffidenti, alcuni col tempo divennero settari, sprezzanti verso tutto e armati contro tutti. Alla fine si divisero tra loro e questo favorì l’isolamento a cui la città “perbene”, l’informazione ufficiale, ma anche la sinistra politica condannò quei ragazzi. Farsi isolare fu un errore clamoroso, forse inevitabile, e alla fine segnò la diaspora di un gruppo che poteva raccogliere – ci aveva anche provato con l’esperienza de I Siciliani Giovani – attorno a sé “la meglio gioventù” di una città pur moralmente e civilmente devastata come Catania.

Ma il fantasma di Giuseppe Fava continuava ad aggirarsi per la città. La morte di Fava non solo per me ma per molti giovani colleghi segnò, come dicevo, una scelta di campo. Anche noi, che non lavorammo a I Siciliani, inevitabilmente fummo contagiati da quell’esperienza. La nostra formazione ne fu condizionata positivamente e in modo radicale. Dovevamo essere come loro, come i ragazzi di Fava. Non scendere a compromessi, non adeguarsi. Tentare di fare informazione a Catania, a modo nostro, senza reverenze, senza scorciatoie per fare carriera, senza sponsor famigliari e politici, senza voscenza benedica. Diventammo adulti tra la fine degli anni ottanta e gli anni novanta e ci trovammo a fare i conti con una guerra, con rivolgimenti profondi e dovemmo assumerci una responsabilità pesante: raccontare quella città. Siamo riusciti a farlo bene. Lo dico senza ipocrite false modestie. Il gruppo di giornalisti, che poi si cristallizzò attorno alla redazione di Telecolor si trovò solo e con una responsabilità grande con la quale fare i conti. Una responsabilità che abbiamo assolto, ritengo, in modo onorevole. Abbiamo dovuto fare i conti in anni terribili con le difficoltà, con le paure, abbiamo costretto le nostre famiglie a vivere nell’angoscia. Ci è andata bene perché siamo rimasti tutti vivi, ma abbiamo pagato prezzi durissimi. Siamo stati cacciati dalla città, ci è stato tolto il diritto di raccontarla. Oggi veniamo guardati ancora come dei “corpi estranei”, nessuno ha mosso un dito per aiutarci, ma siamo sopravvissuti e Catania, seppur a distanza, ancora la raccontiamo, senza peli sulla lingua, senza reverenze per nessuna chiesa. Nonostante tutto non ci siamo arresi e non ci arrendiamo.

Senza il fantasma di Giuseppe Fava a guidarci nessuno di noi avrebbe trovato questa forza dentro di sé.


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