Il gatto di Biagio - Live Sicilia

Il gatto di Biagio

Maria Stella Siciliano apre con un sorriso la porta della sua casa di Capaci. Ho avuto l’appuntamento grazie a Vincenzo, fratello di Biagio. “Entri prego, quando qualcuno mi parla di mio figlio è come se lo facesse vivere un’ altra volta” .

C’è un altro fratello di Biagio Siciliano nel soggiorno. Ci sono ragazzi e ragazze.

Sono qui per curiosità. ”Non conoscono la storia – dice Maria Stella – e vogliono sentirla raccontare. Mio figlio Biagio e Giuditta sono stati dimenticati. Biagio era un ragazzino troppo maturo per la sua età. Vincenzo lo ricorda come un padre. Era sempre attento ai suoi fratelli più piccoli, mi diceva: mamma, stai attenta, perché quello rischia di perdersi… Amava tutti”.

Biagio che amava tutti adesso è qui, dentro una foto ingiallita appesa al muro. La stessa espressione grande e un po’ smarrita del primo giorno di scuola, quando aveva sbagliato classe. Biagio che amava tutti amava anche gli animali, come Giuditta.

Maria Stella ricorda la storia di un cane che stava per affogare. Quel cucciolo, caduto dentro un fosso, fu salvato e rifocillato da quel ragazzino con gli occhi grandi e seri.

Biagio amava suo padre Nicola, ma da lontano. ”Era un rapporto difficile – dice Maria Stella -. Mio marito era un uomo dal sangue caldo. Biagio invece era riflessivo. E quando Nicola tornava nervoso dal lavoro mi diceva sempre: mamma, devi capirlo, la vita in fabbrica non è facile per nessuno”.

Biagio avrebbe voluto fare il veterinario: aveva un gatto. Si chiamava Raimondo. Erano compagni inseparabili.

“Tra me e Biagio c’era un’intesa perfetta – racconta Maria Stella -. Ci capivamo al volo. Quella mattina di novembre era nervoso, inquieto. Gli ho detto: dammi un bacio. Lui mi ha guardato, e mi ha detto: quando tornerò”.

E’ la mattina del 25 novembre 1985, lunedì. Maria Stella aspetta il ritorno dei figli da scuola. Nicola è in fabbrica. Biagio prende la corriera ogni giorno, alla fermata di via Libertà, davanti al “Meli”. Maria Stella sbriga le faccende di casa. All’una e mezza dà un’occhiata all’orologio della cucina e si accorge che si è fermato. “Dopo un po’ ha bussato il maresciallo dei carabinieri di Capaci. Mi ha detto che era successo qualcosa a scuola di Biagio. E’ stato gentile, io però ho cominciato ad avere paura. Ho chiamato mio marito”

Nicola Siciliano corre. “Siamo andati subito a Palermo – continua Maria Stella – e non ho capito più niente”. È un calvario. La corsa comincia in ospedale e finisce all’obitorio. Nella camera mortuaria Nicola urla: “Dio, ridammi mio figlio! Ridammelo!”. Maria Stella non parla. Fissa il corpo di Biagio. Poi, sente il peso di due occhi puntati addosso. Si volta e guarda un uomo che la scruta. “Non lo conoscevo. Scoprirò dopo che era il giudice Paolo Borsellino”.

“La morte di Biagio ha dato tanto a molti – dice adesso sua madre -. Ho ricevuto lettere pure dall’America. Solo la scuola l’ha dimenticato, non fanno più la Messa. E hanno dimenticato Giuditta. Gli studenti del Meli non sanno nulla di quel 25 novembre. Mi ha aiutato la fede, Gesù mi ha tenuto la mano sul cuore e mi ha dato il coraggio di andare avanti. Quella mattina ho seguito Biagio con gli occhi dal balcone, fino a quando l’ho visto sparire dietro l’angolo”. Tra quel ragazzo fragile e sua madre è rimasto il desiderio di un bacio mai dato.

Maria Stella ora si alza, va in un’altra stanza e torna con un incartamento.

“Ecco, questo era di mio marito”. È un diario fatto di fogli di giornale. Una carpetta in cui sono raccolti cronologicamente tutti gli articoli che riguardano l’incidente. E’ il testamento di Nicola Siciliano che ha arricchito quei fogli con annotazioni e appunti personali. “Prego, lo prenda. Poi me lo darà indietro”.

Nicola Siciliano è morto. Quel “mio Dio, ridammelo!” urlato nell’obitorio gli ha consumato anima e corpo.

Lo stesso destino ha preso il gatto Raimondo che, come il suo amico Biagio, un giorno si è allontanato dalla vita, ma in silenzio, a passi felpati. E, proprio come è successo per Biagio, non c’è stato nemmeno il tempo di dirsi addio.

(tratto dal libro “25 novembre 1985” di Roberto Puglisi, ed Promopress –© riproduzione riservata)


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