Il telefono del soggiorno di casa mia squilla al termine di una lunga e faticosa giornata di lavoro. Stravaccato sul divano di fronte alla TV rispondo quasi con fastidio. Dall’altro capo della cornetta una voce matura mi indirizza un saluto e un invito: “La prossima settimana vado in pensione e avrei piacere di festeggiare con amici e colleghi. Vorrei che venissi anche tu”.
Un’inflessione della voce mi dà la sensazione che lui di voglia di festeggiare ne abbia ben poca. Sondo il terreno: “Ah, che bellezza. Finalmente potrai dedicarti di più a te stesso, viaggiare, coltivare le tue passioni”. La sua voce si fa ancor più triste: “Ho cominciato a lavorare in ospedale quasi quaranta anni fa. Non ho mai guardato l’orologio. Ho trascorso nottate intere in sala operatoria trascurando spesso la mia famiglia. Non ho mai preso più di un paio di settimane di vacanze di seguito. La mia passione è la medicina e so che da domani la mia vita sarà diversa. Mi sembrerà quasi di essere un’altra persona”. Cerco invano di addolcire i suoi pensieri: “L’importante è trovare qualcos’altro da fare. Potrai iscriverti in palestra, leggere finalmente qualcosa che non parli di malanni, andare al cinema più spesso. E poi tra un po’, quando arriveranno i nipotini, vedrai come saranno piene le tue giornate”.
Mi ringrazia ancora, anche se mi lascia con la sensazione amara che lui, che ha speso la vita al servizio degli altri, senta l’uscita dal lavoro come fosse l’uscita dalla vita. Il chirurgo ebbro di passione e adrenalina non sembra affatto a proprio agio nei panni del placido pensionato. Eh sì, perché accanto alla categoria dei tanti che girano da un potente all’altro con un cappello in mano alla ricerca del “posto” e a quella di coloro che avendone trovato uno lo infangano con la disonestà o la pigrizia – la famosa categoria del “Non è di mia competenza” -, ci sono quelli che il proprio lavoro lo onorano con la fatica e la passione. Quelli che nelle difficoltà di tutti i giorni – e noi degli ospedali lo sappiamo bene – trovano un ulteriore stimolo per non arrendersi, per erogare quel surplus che fa sì che alla fine della giornata ci si possa sentire stremati, eppur paghi di aver compiuto la quotidiana professione di rispetto per il proprio lavoro e per se stessi. In un momento in cui si ridiscute ancora di pensioni, mi domando come si possano conciliare le esigenze di quei lavoratori che vorrebbero andare in pensione ma non possono con quelle di coloro che invece ci vanno ma non vorrebbero.
In questi anni abbiamo assistito a riforme pensionistiche che hanno progressivamente innalzato l’età pensionabile erodendo la distanza temporale tra la data della pensione e quella della morte. Inoltre, il riscatto dei periodi di studio è ormai così costoso da non essere più conveniente. Con la virtuale abolizione del fisiologico ricambio generazionale, il sistema innesca un circolo vizioso che fa sì che i giovani, che accedono al mondo del lavoro sempre più tardi, forse matureranno il diritto a una pensione dignitosa quando saranno ormai sulle soglie del camposanto. Non ho titoli per indicare come si possa disinnescare questa bomba a orologeria sociale pronta ad deflagrare tra le mani dei nostri figli.
Fior di esperti, come la signora Fornero, hanno già dato ampia prova di sé con i risultati che sappiamo. Ritengo tuttavia che si debba andare verso una maggiore libertà di scelta consentendo a chi lo desideri, con eque decurtazioni sulla pensione da compensare con un maggior beneficio fiscale sulle contribuzioni pensionistiche volontarie, di andare in pensione prima del tempo. Al contempo, non vedo perché non permettere a chi lo voglia di restare in servizio, magari con sole funzioni di supporto didattico, per non dilapidare l’impagabile patrimonio dell’esperienza. Perché la torta della festa del giorno della pensione, dolcissima per chi lavora per vivere, ha invece un retrogusto amaro per chi vive per lavorare. E in ogni caso, amico mio, la nostra professione non è più quella di quando cominciammo tanti anni fa. Noi siamo l’interfaccia tra un sistema che taglia servizi e un’umanità sempre più sofferente e bisognevole di assistenza. Noi siamo come gli operatori di un call center esposti alle rampogne del cliente insoddisfatto essendo solo l’anello finale di una catena smagliata. Tu non sai quante volte mi sia chiesto ultimamente se ne valga più la pena, tra organici che s’assottigliano e utenza sempre più pretenziosa. Ma poi vedo un figlio in lacrime e ci ripenso. Perché, tu lo sai bene, il mestiere del medico è il più bello del mondo. E tu, pensione o no, medico lo sarai per sempre.