Il mio nemico Pelé - Live Sicilia

Il mio nemico Pelé

Il paragone tra grandi e quel film su Eric Cantonà.

La morte di Pelé, non solo non farà cessare, ma aumenterà la voglia di sciogliere, a parità di condizione (ormai sono entrambi morti) il dilemma su chi sia stato, a oggi, il più importante interprete del football di sempre: lui o Maradona? Paragonare e comparare sono azioni del pensiero in cui si prova a mettere a confronto due persone, due cose, due fatti, per provare a trarre, dalle loro somiglianze o differenze, giudizi utili a inquadrare non semplicemente il valore dell’una rispetto all’altra, ma il valore dell’insieme, o del sotto insieme, cui appartengono: per capirne i rispettivi contributi. Gli esseri umani, gli eventi, e le cose prodotte, quando sono memorabili spingono e incitano al paragone tra di esse. Dante, Boccaccio, o Petrarca? Canne, Termopili, o Stalingrado? Se le comparazioni, poi, passano da argomenti in qualche modo non popolari e diffusi, a quelli planetari, da coinvolgere ogni essere umano presente sulla Terra, l’azione del comparare diventa quasi un’altra cosa: non più un fatto logico e razionale ma emotivo. Non discuto e non censuro, quest’atteggiamento, che non mi vede estraneo, però ho voglia di ricordare una cosa, in un barlume di lucidità. 

Pelé o Maradona? Nessuno dei due: il calcio è meglio di ambedue. E’ il calcio ciò che rende il paragone possibile: senza il calcio, Pelé e Maradona, non esisterebbero nemmeno. 

Ken Loach, affidandosi a un altro monumento del calcio, come Eric Cantonà, chiarisce la questione in maniera definitiva, in un suo film: “Il mio amico Eric”. Nel quadro reale del degrado delle provincie inglesi, prevale la depressione di molte persone abbandonate a se stesse, senza lavoro, senza famiglia, senza affetti. Persone che hanno, come unica consolazione, la partita della loro squadra: il Manchester United. Eric Cantonà interpreta se stesso, ed è coinvolto in un rapporto con un suo fan che ha il suo stesso nome e fa il postino. Un rapporto che sembra quasi come quello di Massimo Troisi con Neruda, nel celebre film. Il momento chiave del film è quando Eric il postino chiede a Eric il calciatore, il momento più bello della sua carriera, aspettandosi come risposta il ricordo di uno dei tanti gol segnati dal calciatore. 

<< Eric: Sessantamila persone che ti guardano, applaudono, gridano il tuo nome

Cantona: Fa paura

Eric: Tu avevi paura?

Cantona: Sì

Eric: Ma quando mai?

Cantona: Paura che potesse finire. Mi piaceva sorprendere gli spettatori. Ogni volta in ogni partita io cercavo di fargli un regalo. Qualche volta non mi riusciva ma quando succedeva.

Eric: È tutto questo che mi manca. Sono dieci anni che non vado a una partita. Allora, dimmi il momento più bello di tutti?

Cantona: Non è stato un gol.

Eric: È per forza un gol!

Cantona: No!

Eric: Sì! Ultimo minuto, finale di Coppa d’Inghilterra contro Liverpool. Beckham tira un calcio d’angolo e il portiere esce e respinge di pugno, la palla rimbalza verso di te, preso al volo e dritto in rete!

Cantona: No!

Eric: Wimbledon! Corri verso la palla, la palla arriva, tu valuti in un attimo la traiettoria, l’angolazione, la rotazione, sai dove soffia il vento, la sua velocità, tutto! Allunghi il piede, la stoppi di sinistro, due rimbalzi, due passi e tiri un gran destro! Il tiro più bello, più perfetto del mondo! Certo che è un gol! Deve essere un gol!

Cantona: È stato un passaggio.

Eric: Un passaggio?

Cantona: Sì

Eric: Ah mio Dio. A Irwin! Contro gli Spurs. Sì! Splendido.

Cantona: Sapevo quanto era bravo quel ragazzo, sia di sinistro sia di destro. Era veloce come un lampo, io ho toccato d’esterno, tutti sorpresi. Lui ha tirato in corsa e il mio cuore ha preso il volo.

Eric: Un regalo

Cantona: Sì, quasi un’offerta, al grande dio del calcio

Eric: E se avesse sbagliato?

Cantona: Devi fidarti dei tuoi compagni, in ogni caso, altrimenti tutto è perduto.>>

Secondo Manlio Sgalambro, l’umanità non è nulla, mentre alcune donne e uomini sono tutto il possibile. Ancor prima di porre il problema se lui avesse ragione o meno, quando lessi questo concetto, cercai subito d’immaginare se fosse vero: cioè se lui avesse visto qualche cosa che sostiene quest’affermazione. Perché questo è importante. In genere, ciò che pensiamo, non conta nulla. Quello che ha valore è ciò che vediamo e le ragioni che ne traiamo, anche quando il vedere, non corrisponde al nostro pensiero. Tornando con la memoria a ciò che io ho visto nella vita, ho allora nitidamente ricordato che più volte mi è capitato di notare, come non tutte le mancanze (per causa di morte o distanziamento) sono le stesse. Anche quando, durante le vicende e i rapporti conviviali di gruppi familiari e amicali, non appare evidente, all’interno di quell’insieme esiste una donna o un uomo che nel venire a mancare non lascia un posto libero, un vuoto, ma modifica per sempre quell’insieme, come se gli altri contassero poco e l’insieme quasi nulla. 

Pelé? Per me rimane quello che spense il sogno delle persone che, in una notte italiana e pugliese del 1970, erano davanti al televisore in bianco e nero, in cui si trasmetteva, dal lontano Messico, la finale contro il Brasile. Quella che seguiva alla ancor più famosa partita tra Italia e Germania, conclusa, come sanno oramai anche su Marte, quattro a tre per l’Italia. La mattina dopo, mentre i grandi, delusi e assonnati andarono al lavoro, noi, i piccoli del mondo, sul nostro piazzale d’asfalto, giocammo a pallone. Quella mattina, però, fu diverso. Entrammo in campo in fila indiana, da un sottopassaggio immaginario, come avevamo visto fare a Pelé, a Gigi Riva, a Gianni Rivera. Entrando in campo, toccammo il prato con le mani, anche se nella realtà era uno schifosissimo asfalto nero, e ascoltammo le urla della folla. Immaginazione, sogno: più futuro. Perché bisogna fidarsi del futuro, altrimenti tutto è perduto. Questo è il calcio, il resto passa. 


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